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martedì 1 febbraio 2022

Alexandra David-Neel, la prima europea nella città sacra di Lhasa

Nel 1923 due viaggiatori in cammino sulla polverosa strada per la città proibita di Lhasa, arrivarono a un bivio: sia la donna, l'esploratrice e scrittrice francese Alexandra David-Neel (1868-1969), che l'uomo, il suo giovane compagno e monaco buddista Yongden, sapevano bene che qualunque decisione avessero preso, avrebbero affrontato un grande pericolo.

La prima strada, passando per villaggi e monasteri, garantiva ai due la possibilità di trovare cibo e riparo, ma era pericolosa poiché il Tibet era vietato agli europei e Alexandra, nonostante il suo travestimento, poteva essere scoperta.
La seconda strada era un selvaggio sentiero di montagna, molto ripido che la neve rendeva ancora più infido nei tratti scoscesi ed esposti, ma la sua inaccessibilità riduceva il rischio di essere scoperti, anche se l'incontro con ladri o briganti non era del tutto da escludersi.

Per alcuni istanti i due viaggiatori esitarono di fronte alla scelta. Yongden attendeva mentre Alexandra continuava a osservare l'erto sentiero di montagna, considerandone tutta la bellezza e il fatto che pochissimi pellegrini diretti a Lhasa avrebbero scelto di percorrerlo e siccome nella sua vita Alexandra David-Neel aveva sempre preferito fare ciò che gli altri non facevano, a un certo punto spezzò il silenzio dicendo a Yongden «Prendiamo la strada di montagna»: era determinata a diventare la prima donna europea ad entrare nella città sacra di Lhasa.

«L'avventura è stata la mia unica ragione di vita», ha detto una volta Alexandra David-Neel.
In questa foto, scattata quando aveva 81 anni, indossa abiti tradizionali tibetani, circondata da alcuni dei manufatti raccolti durante le sue numerose avventure in Asia.

sabato 8 maggio 2021

Il primo sbarco in Antartide

Spesso pensiamo agli esploratori, meglio ancora agli esploratori del passato, come a delle figure mitiche, uomini (perlopiù) dalla tempra d’acciaio che, lasciata la sicurezza delle proprie vite, si gettavano all’inseguimento di un ignoto tutto da decifrare; e magari pensiamo pure che i Paesi d’origine di questi esploratori tributassero loro grandi onori, una volta tornati in patria, come si fa con chi ha messo a repentaglio la propria vita per il progresso della civiltà.
Purtroppo non sempre è andata così: è il caso di Edward Bransfield, esploratore irlandese.

A lungo dimenticato dalla Storia, quella con la “S” maiuscola, Bransfield scoprì nientemeno che l'Antartide, ma per sua sfortuna lo fece in un periodo storico in cui l’Ammiragliato britannico era più interessato alla ricerca del Passaggio a Nord-Ovest che a scoprire nuove terre nel sud del sud del mondo e questo perché nel 1774 l’esploratore inglese James Cook, oltrepassato il circolo polare antartico e toccata la latitudine di 71° 10', venne respinto dai ghiacci. L’Antartide, insomma, era un luogo ostile, d’un bianco accecante, inospitale ed estremo, in altre parole di scarso valore.

Nel 1819 però la musica cambiò.
William Smith, skipper del mercantile inglese “Williams”, nel doppiare Capo Horn venne spinto a sud da venti violenti e scoprì per puro caso quelle che, in seguito, saranno chiamate Isole Shetland meridionali.
Bransfield aveva 34 anni e da quattro era stato nominato comandante della fregata “HMS Andromache” al servizio del capitano William H. Shirreff, presso la nuova stazione della Royal Navy situata a Valparaiso, in Cile. Quando la notizia della scoperta di Smith raggiunse il capitano Shirreff, questi spedì Bransfield sul mercantile “Williams” con il compito assumerne il comando ed esplorare le coste e le isole di quel territorio impervio e sconosciuto.
Da qui in poi fu tutto un navigare, mappare e dare nuovi nomi a terre fino ad allora sconosciute.
Smith e Bransfield raggiunsero l’isola di Re Giorgio (ribattezzata in onore di Giorgio III, morto il giorno prima) e ne presero possesso formale per la Corona; proseguirono poi in direzione sud-ovest, verso l’isola Deception e poi ancora a sud, lambendo Tower Island, Ohlin Island e ancora più avanti attraversando quello che oggi è conosciuto come lo stretto di Bransfield.

Il 30 gennaio 1820 il mercantile “William” fece rotta verso la penisola Trinity, il punto più settentrionale del continente antartico, ed Edward Bransfield scese a terra: come scrisse l’inglese Roland Huntford, grande biografo di esploratori polari, “Questa fu la scoperta dell'Antartide”.
Bransfield quindi ha un posto importante nella Storia, quella con la “S” maiuscola, e negli ultimi anni il Regno Unito ha riscoperto e onorato il suo nome con l’emissione di un francobollo che ne commemora le imprese e il restauro della tomba a Brighton, di cui Sheila Bransfield, pronipote di Edward, ha strenuamente sostenuto il restauro.

C’è però un colpo di scena che dobbiamo aggiungere. All'insaputa di Bransfield infatti, due giorni prima del suo sbarco sembra che l'esploratore russo Fabian Gottlieb von Bellingshausen avesse avvistato la costa ghiacciata che oggi fa parte dell'Antartide orientale, ipotesi che alcuni, tra cui lo storico polare A. G. E. Jones, affermano con certezza. Avvistato però non significa esplorato e al di là delle controversie e dei bisticci tra gli storici, è certo che Edward Bransfield, esploratore irlandese, sia stato il primo uomo ad aver calcato il lunare biancore del suolo dell’Antartide.



giovedì 18 marzo 2021

Il dolore e la rinascita: Cynthia Longfield, la "Madame Dragonfly" dell’Isola di Smeraldo

Cynthia Longfield nacque il 16 agosto 1896 a Londra da genitori anglo-irlandesi, ma trascorse gran parte della propria infanzia a Castle Mary, la casa di famiglia a Cloyne, nella contea di Cork; proprio qui sui verdi prati d’Irlanda, giocando insieme ai suoi amici, iniziò ad osservare i complessi e meravigliosi meccanismi della Natura e ad innamorarsene.
Suo nonno materno James Mason, chimico e ingegnere, e sua madre Alice incoraggiarono l'interesse di Cynthia, regalandole i primi libri di scienze e non ostacolarono l'entusiasmo verso l'avventura che la giovane dimostrava via via crescendo: un atteggiamento di straordinaria modernità per la società irlandese dell'epoca.
Nel maggio 1920 Castle Mary, l'amata casa, venne bruciata dai ribelli dell’IRA durante quel tragico periodo che verrà ricordato come Guerra d’indipendenza irlandese, combattuta dal governo britannico in Irlanda e dall’Irish Republican Army (Ira) e che si concluse nel 1921. Per il padre di Cynthia fu un durissimo colpo, un’insensata manifestazione di violenza, poiché i Longfield si consideravano a tutti gli effetti irlandesi; ma Cinzia trasformò quel momento di dolore in un'opportunità di rinascita.

Rivolse lo sguardo al mondo e iniziò a viaggiare.

Nel 1921 intraprese il suo primo viaggio all’estero, raggiungendo Brasile, Argentina, Cile, Bolivia, Perù, Panama, Giamaica e Cuba, un tour lunghissimo durante il quale sbocciò la sua passione per l'entomologia.
Il 1923 le offrì l'occasione della vita: rispondendo a un annuncio pubblicitario, incontrò Evelyn Cheeseman viaggiatrice ed entomologa allo zoo di Londra e scoprì che Evelyn aveva bisogno di una compagna nella “spedizione St. George” diretta verso l’Oceano Pacifico. Per un anno e mezzo navigarono di isola in isola, raccogliendo una grande collezione di insetti per il Natural History Museum.
Ispirata in tenera età dalla teoria dell'evoluzione di Charles Darwin e dal suo viaggio a bordo del Beagle scrisse: "Ho intrapreso la “spedizione St. George” per seguire le orme di Darwin, e ci sono arrivata!".


Al suo ritorno in Gran Bretagna, Cynthia iniziò a lavorare al Natural History Museum di Londra, riordinando la collezione; ne diventò un membro associato e, sebbene non stipendiata, continuò a lavorare quotidianamente alla sua scrivania, salvo che nei periodi all'estero, fino al pensionamento avvenuto nel 1957.
Decise di non sposarsi e di dedicare la vita intera all'entomologia. Nel suo immenso lavoro di ricercatrice ha selezionato, descritto e nominato, non solo le sue collezioni, ma gli infiniti esemplari inviati da appassionati di tutto il mondo. Pubblicava regolarmente le proprie scoperte ed era membro della Entomological Society, della Royal Geographical Society e della London Natural History Society.

Viaggiatrice vorace, compì lunghi viaggi di ricerca attraverso i Tropici, Canada, Africa orientale, Kenya, Sud Africa, Uganda e Zimbabwe. Fu costretta a tornare a Londra nel 1937 per aver contratto la malaria in Africa e allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale entrò a far parte dei vigili del fuoco ausiliari, all'inizio come autista e poi come responsabile del centralino telefonico, da cui coordinava gli interventi antincendio che avrebbero salvato Londra dalle fiamme.
Non smise mai di viaggiare, né di studiare entomologia. Due specie di libellule sono state nominate in suo onore: Corphaeschnalongfieldae (Brasile) e Agrionopter insignis cynthiae (Isole Tanimbar).

Nel 1937, Longfield pubblicò il suo libro "Le libellule delle isole britanniche". Il libro andò rapidamente esaurito e Longfield da quel momento in poi venne soprannominata "Madame Dragonfly".


Cynthia Longfield in un'illustrazione di Szabolcs Kariko


venerdì 5 marzo 2021

Eravamo giovani quando ci siamo dedicati alla scoperta...

"Eravamo giovani quando ci siamo dedicati alla scoperta, alla esplorazione. Quando quello che ci interessava era scendere più profondo e vivere sul fondo del mare, recuperare i resti di una grande galera romana, affrontare gli squali, terrificanti e misteriosi mostri marini. E la gioventù è grintosa, entusiasta, totale, egocentrica, estremista, spericolata. Eravamo giovani e pensavamo a noi stessi, alla realizzazione dei nostri sogni. Poi siamo diventati adulti. Dunque più altruisti, più riflessivi. 
Allora l'interesse maggiore è diventato quello di raccontare le nostre esperienze, di coinvolgere gli altri nella nostra avventura. Lo scopo della vita è divenuto quello di infiammare gli animi, di accendere gli entusiasmi. Ci siamo resi conto che un uomo da solo non è nulla, se non si rapporta a quelli che lo circondano. 
Attraverso le immagini, attraverso i racconti, le esperienze vissute cambiavano forma, acquistavano spessore. Solo attraverso la divulgazione, la crescita dei singoli poteva diventare la crescita dell'intera umanità. Solo così il patrimonio di ognuno poteva entrare a far parte della cultura di tutti. Oggi abbiamo percorso il mondo in lungo e largo, ne abbiamo svelato e raccontato i segreti. Ora bisogna impegnarsi per conservare tutto questo. 
Ora si deve far sì che le immagini dei film, le storie dei libri non rimangano fine a se stesse. Bisogna lottare perché tutti abbiano diritto ad una vita felice in un pianeta ancora integro. "


- Jacques Yves Cousteau





martedì 25 agosto 2020

Harry Bensley, l'uomo dalla maschera di ferro

Una sera del 1907 al National Sporting Club di Londra, due gentiluomini stavano sostenendo un'interessante conversazione: dibattevano sulla possibilità che avrebbe avuto un uomo di portare a compimento il giro del mondo senza mai svelare la propria identità.
Questi due signori erano il banchiere americano John Pierpoint Morgan e Hugh Cecil Lowther Lonsdale (sì, esattamente colui che istituì il trofeo pugilistico comunemente noto come Lonsdale Belt, da cui poi avrebbe preso il nome il marchio d’abbigliamento sportivo Lonsdale). 
Lonsdale era convinto che fosse possibile, Morgan lo era un po’ meno e lanciò una sfida: chiunque l’avesse accettata si sarebbe aggiudicato 100.000 dollari (21.000 sterline), ma non prima di aver superato le insidie della più grande scommessa mai affrontata, accogliendo le gravose condizioni poste a guardia della ricompensa.
Il candidato avrebbe dovuto compiere un viaggio a piedi attraverso 169 città inglesi, più altre 125 in 18 Paesi del mondo, indossando una maschera di ferro.
Un terzo uomo, sentendoli chiacchierare si disse pronto ad affrontare l’avventura. 
Si chiamava Harry Bensley e questa è la sua storia.



Bensley era un uomo amante del rischio, dell’avventura, delle donne e del gioco d’azzardo, che nel 1904 era stato condannato a quattro anni di lavori forzati per bigamia e frode. Si diceva che avesse fatto fortuna attraverso certi investimenti in Russia, i quali gli fruttavano circa 5.000 sterline l'anno, cifra enorme a quel tempo. 
Morgan e Lonsdale dettarono delle condizioni a cui Bensley si sarebbe dovuto scrupolosamente attenere:
  • Fare il giro del mondo spingendo una carrozzina e indossando una maschera di ferro, presa da un’armatura, del peso di due chili per nascondere la propria identità lungo il viaggio
  • Entrare in possesso della licenza per vendere fotografie e opuscoli, con cui finanziare l’impresa, il cui prezzo era però fissato a non più di una sterlina.
  • Iniziare la scommessa partendo da Trafalgar Square, Londra, il primo gennaio 1908, alle 10.30 in punto.
  • Fare scalo nella capitale e in altre tre città indicate in un elenco allegato, in ogni contea dell'Inghilterra.
  • Ottenere un documento, firmato dal sindaco, o da qualsiasi altra persona di spicco in città, che attestasse data e ora di arrivo nel luogo indicato.
  • Ottenere il timbro postale di ogni città attraversata nel viaggio.
  • Indossare alla partenza i seguenti capi d’abbigliamento: un vestito, un paio di calze, una camicia, un sottogilet, un paio di pantaloni, un paio di stivali, fasce mollettiere, una maglia, un fazzoletto, una maschera: solo un cambio di biancheria intima era consentito come bagaglio.
  • Trovare moglie durante il viaggio senza mai togliersi la maschera.
  • Inoltrare un resoconto delle miglia percorse e delle città visitate con tutti i documenti necessari dal capoluogo di ciascuna contea inglese e da tutte le altre città.
  • Visitare i Paesi del mondo nell'ordine dell'elenco allegato.
Una delle cartoline con cui Bensley finanziò il viaggio
Tutte queste condizioni dovevano essere rispettate, pena l’annullamento della scommessa: tutte tranne una in effetti, poiché Harry alla partenza era già sposato. Bensley avrebbe viaggiato sotto la stretta sorveglianza di un uomo soprannominato “The Minder”, una sorta di guardia del corpo, che Morgan finanziò come garante dei termini della scommessa.
Il primo gennaio 1908 Harry Bensley, all'età di trentun anni, mosse il primo passo di questa pazza avventura in mezzo a una folla acclamante di londinesi accorsi a Trafalgar Square attirati dallo scalpore che l’evento aveva suscitato. Si mosse con disinvoltura in compagnia del suo uomo di scorta, spingendo una carrozzina nera e indossando un elmo brunito su cui capeggiava la scritta "Walking around the World".

Dei passi che seguirono sappiamo ben poco se non che durante il viaggio avrebbe venduto una cartolina al re Edoardo VII, ricevuto e garbatamente rifiutato ben duecento proposte di matrimonio, sarebbe finito in tribunale per aver venduto foto senza licenza scappando poi senza rivelare la propria identità, avrebbe percorso 30.000 miglia in sei anni raggiungendo la Cina e il Giappone, prima che la scommessa venisse annullata per lo scoppio della Prima Guerra mondiale.
Chissà se le cose sono davvero andate così?
Il ricercatore Tim Kirby ha tracciato in una mappa (che potete visualizzare qui) tutti i luoghi toccati da Bensley nel tortuoso viaggio tra Inghilterra meridionale e Galles nel 1908, corredando ogni tappa contrassegnata da una carrozzina dorata, di vari documenti d’epoca. Una ricerca estremamente ampia e approfondita, iniziata per comprendere stravagante storia di Harry e i suoi misteri.

Verità o finzione Harry Bensley, l'uomo con la maschera di ferro, tra spregiudicatezza e tenacia ha saputo incarnare alla perfezione l’immaginario eroico del globetrotter, per cui la meta del viaggio è principalmente il viaggio stesso, un avventuriero dal bagaglio leggero in cammino per conoscere e affrontare il mondo.

Bensley morì a Brighton, in Inghilterra, il 21 maggio 1956. E' certo.
Ma questa è un’altra storia.

domenica 16 agosto 2020

Shaaw Tláa e l'oro amaro del Klondike

Il 16 agosto del 1896 George Carmack, Skookum Jim Mason e Dawson Charlie, risalendo il fiume Klondike, scoprirono casualmente dei ricchi filoni auriferi nel Rabbit Creek, un corso d’acqua nella valle del fiume Yukon. La storia ormai li ha riconosciuti come gli iniziatori di una delle più grandi corse all'oro mai avvenute, che spinse circa 100.000 individui a mettersi in viaggio verso gli insidiosi territori del Canada nord-occidentale e dell’Alaska, con il solo desiderio di trovare l’oro e di arricchirsi a dismisura. Una frenesia che accomunò masse di disperati e folle di professionisti, scrittori, fotografi, giornalisti, un sogno d’avventura e di libertà che trasformò questa gente nei pionieri della cosiddetta “Febbre del Klondike”. 

Gran parte degli storiografi ha però omesso un particolare importante, per non dire essenziale, e cioè la presenza di un quarto componente del gruppo: una donna.

Kate Carmack, moglie di George, secondo quanto tramandato dalle comunità indigene locali, sembrerebbe aver trovato la prima pepita d'oro, oltre ad aver svolto un ruolo fondamentale nella spedizione.
Kate, il cui vero nome era Shaaw Tláa era una indigena canadese Tagish che aveva perso marito e figlia durante un’epidemia di influenza. Sua madre la incoraggiò a sposare il marito della sorella defunta, un uomo bianco di nome George Washington Carmack, che nel 1887 si era messo in società con il fratello di Shaaw Tláa, Keish, conosciuto come Skookum Jim Mason e con suo nipote Káa Goox, noto come Dawson Charlie, per indagare il sottosuolo alla ricerca dell’oro. Il matrimonio tra i due fu presto celebrato, Carmack le diede il nome di Kate e la donna iniziò a viaggiare con i tre uomini. Per i successivi sei anni, la coppia visse nella regione di Forty Mile dello Yukon, dove George cacciava e Shaaw Tláa cuciva abiti invernali, guanti e mukluks (morbidi stivali indossati dai locali, tradizionalmente fatti di pelle di caribù) da rivendere ai cercatori d’oro, ricavando così il necessario per mandare avanti la famiglia. Nel gennaio 1893, Kate diede alla luce una bambina, Graphie Grace Carmack, e tre anni e mezzo dopo avvenne la scoperta dell’oro nel Rabbit Creek, oggi noto come Bonanza Creek, che fruttò alla coppia la bellezza di 100.000 dollari.

Gli anni a seguire furono complessi e dolorosi: George, esaltato dall’improvvisa ricchezza, cercò di rimandare Shaaw Tláa al suo clan per poter sposare Marguerite Saftig Laimee, una donna di dubbia reputazione e proprietaria di un bordello a Dawson City. Riuscì nel suo intento perché il loro matrimonio non era stato celebrato ufficialmente e malgrado i due stessero insieme da tredici anni e avessero una figlia, la richiesta di divorzio invocata da Shaaw Tláa non poteva sussistere.

George Carmack morì a Vancouver nel 1922, Marguerite ereditò la sua ingente ricchezza e si spense nel 1949. Shaaw Tláa dopo aver perso la custodia di sua figlia Graphie Grace, tornò al suo clan Tagish e visse gli ultimi anni della sua vita grazie a una misera pensione governativa in una capanna che Skookum Jim aveva costruito per lei a Carcross. 
Morì nel 1920 durante un'epidemia di influenza. 
Aveva 63 anni.

sabato 8 agosto 2020

La grazia e il coraggio: l'indimenticabile traversata di Florence Chadwick

Quando raggiunse la costa di Dover, in Inghilterra, l'otto agosto 1950, dopo aver nuotato dalla Francia all'Inghilterra, Florence Chadwick disse:

"Mi sento bene. Sono abbastanza preparata per tornare indietro a nuoto".

Dopo due anni di duro allenamento aveva stabilito il nuovo record mondiale di traversata, nuotando da Cape Gris-Nez, in Francia, a Dover in Inghilterra, in 13 ore e 20 minuti, battendo il precedente primato stabilito ventiquattro anni prima dalla connazionale Gertrude Ederle, che traversò in 14 ore, 39 minuti e 24 secondi.


In realtà non tornò subito indietro a nuoto, ma nel 1951 raggiunse nuovamente Dover in cui trascorse undici settimane, aspettando il bel tempo e condizioni favorevoli. L'undici settembre 1951 Chadwick decise finalmente di nuotare, nonostante la fitta nebbia e i forti venti contrari.

A questo punto dobbiamo fare una riflessione, a partire da qualche dato oggettivo. A causa dei forti venti e delle maree, questa rotta che attraversa la Manica da Dover a Sangatte, è sempre stata considerata molto impegnativa, più difficile della rotta Francia-Inghilterra. I nuotatori che l'avevano preceduta infatti avevano evitato questa impresa e nessuna donna l'aveva mai completata; ma Florence, con un tempo record di 16 ore e 22 minuti riuscì a completarla.
Durante il tragitto dovette assumere farmaci contro il mal di mare, sopportare strenuamente il freddo e la fatica, ma riuscì splendidamente a concludere la traversata. Sulla sponda opposta il sindaco della città di Sangatte la accolse sorridente e commosso per congratularsi. 

Nuotare su lunghe distanze, come la maratona e altri sport di resistenza, richiede agli atleti un'ottima forma fisica, una gran tecnica e una gran concentrazione. La maggior parte degli atleti che si cimentano in una traversata, esegue tra le 60 e le 70 bracciate al minuto. Pertanto, una nuotata di 10 ore richiederebbe 42.000 bracciate e una nuotata di 14 ore richiederebbe 58.000 bracciate: un'impresa incredibile. Per non parlare dei pericoli che si possono incontrare in acque libere: occorre coraggio per attraversare la notte oscura, la nebbia, per fronteggiare la presenza di relitti, di macchie di petrolio e di squali e meduse. 
Se ci pensiamo bene malgrado sia una traversata di sole ventitré miglia, un nuotatore potrebbe dover faticare per molte più miglia, assecondando correnti contrarie, maree, vento, onde alte e traffico marittimo.

Ma Florence Chadwick non era sola a nuotare in quel freddo mare di confine. Insieme a lei c'era l'immagine, l'esempio e l'ispirazione datale da Gertrude Ederle, la prima donna ad attraversare a nuoto la Manica. Gertrude compì la traversata nel 1926 e, sebbene la gente pensasse che le donne non fossero in grado di realizzare una tale impresa, non solo la completò, ma batté il record stabilito da un uomo, di quasi due ore. Chadwick, volendo superare Ederle, diventò la prima donna a nuotare nella Manica in entrambe le direzioni, dalla Francia all'Inghilterra e dall'Inghilterra alla Francia.

Al suo rientro negli Stati Uniti venne acclamata come un'eroina nazionale. Radio e televisioni fecero a gara per ospitarla e farle raccontare le emozioni di quell'avventura ai limiti dell'impossibile. Divenne testimonial in molte pubblicità e madrina di manifestazioni sportive.
Viaggiò in tutto il Paese tenendo conferenze sul valore dello sport e dell'attività in acqua, insegnando ai bambini a nuotare e divenendo un esempio per molte donne. Insegnò loro ad affrontare le paure e a superare i limiti imposti da una società che non credeva nelle loro possibilità.
Seguendo l'esempio di una donna, Florence Chadwick ispirò migliaia di persone ad avere fiducia in se stesse e a spingersi al di là dei confini del possibile. 
Con grazia, umiltà e coraggio.

venerdì 7 agosto 2020

Il Kon-Tiki e quel naufragio che diede inizio alla leggenda

Uno smilzo equipaggio su una zattera in legno di balsa, in balia dei flutti su un mare in tempesta, è davanti alla terribile prospettiva di un naufragio.
E' il 7 agosto 1947 e a bordo ci sono sei marinai norvegesi dalle barbe lunghe: Thor Heyerdahl, Knut Haugland, Bengt Danielsson, Erick Hesselberg, Torstein Raaby ed Herman Watzinger. Hanno viaggiato per 101 giorni su una zattera ribattezzata Kon-Tiki che ha percorso circa 3.770 miglia marine (6.890 km), con una velocità media di circa 1,5 nodi, per provare che la colonizzazione della Polinesia poteva essere avvenuta, in epoca precolombiana, da popolazioni del Sud America.
La zattera, costruita con tronchi lunghi 13,7 metri e tenuta insieme da corde in canapa, dopo un lungo viaggio si incaglia sulla barriera corallina nei pressi dell'atollo di Rairoa, nell'arcipelago Tuamotu, situato nella Polinesia francese.

Mappa dell'atollo di Raroia dove il Kon-Tiki concluse il suo viaggio. Disegno di Erik Hesselberg.


Un coraggioso esperimento condotto da sei uomini che, seguendo una insopprimibile sete di conoscenza, sono riusciti a scrivere una delle pagine più straordinarie dell'esplorazione del ventesimo secolo.

giovedì 6 agosto 2020

Gustav Holm e la scoperta della Groenlandia orientale

Il 6 agosto 1849 nacque a Copenhagen l'esploratore danese Gustav Frederik Holm.
Seguendo le orme di suo padre e suo nonno, entrambi ufficiali, entrò nella Marina Reale danese come sottotenente nel 1870, e dopo una brillante carriera fu nominato direttore del Royal Pilotage Service nel 1912, un incarico di responsabilità che ricoprì con grande successo durante la prima guerra mondiale e fino a quando non si ritirò definitivamente dal servizio, nel 1919.

I più grandi successi Holm, tuttavia, li ebbe in qualità di esploratore artico ed è così che comincia la storia che vogliamo raccontarvi.

Nella seconda metà del XIX secolo, nacque l'idea di avviare una sistematica indagine geologica e geografica della Groenlandia: l'autore di questa proposta era Frederik Johnstrup, professore di mineralogia all'Università di Copenaghen, che nel 1875 presentò un piano dettagliato al governo, il quale tre anni dopo nominò una Commissione per la direzione geologica e geografica le investigazioni in Groenlandia.
Nel 1876 Holm prese parte alla prima di una lunga serie di spedizioni nella Groenlandia occidentale come addetto al rilevamento, sotto la guida di Knud J. V. Steenstrup: le ricerche portarono alla mappatura di circa 4.000 chilometri quadrati nel distretto di Julianehåb, in cui vennero raccolte un numero considerevole di antichità e di piante
La sua conoscenza della costa orientale, la sua familiarità con i nativi della Groenlandia e con le loro tecniche di viaggio, spinsero Holm a condurre una spedizione in quelle regioni per rintracciare possibili tracce dell'occupazione norrena sulla costa orientale. 
Nel 1883 partì quindi con l’intento di seguire le acque costiere libere dal ghiaccio per mezzo di umiak, agili imbarcazioni Inuit ricoperte di pelle, ed esplorare la costa orientale, da Cape Farewell verso nord. Il suo secondo in comando era il tenente V. Garde della Royal Danish Navy, e lo staff scientifico era composto dal botanico P. Eberlin, dal mineralogista norvegese Hans Knutsen e da un gruppo di nativi, profondi conoscitori della lingua locale e delle tecniche di navigazione.

I membri danesi della spedizione lasciarono Copenaghen nel maggio 1883 e dopo un lungo viaggio proseguirono verso il piccolo avamposto groenlandese di Nanortalik per svernare, portare avanti osservazioni meteorologiche e prepararsi per il grande viaggio che avrebbe avuto luogo l'estate successiva.
Il 5 maggio tutto era pronto e la spedizione, che consisteva in trentasette persone, a bordo di quattro umiak e alcuni kayak di accompagnamento, si mise in viaggio verso la costa orientale. Di qui in avanti la morsa del pack fermò a più riprese il loro andare, finché nei pressi del ghiacciaio Puissortoq, considerato uno dei luoghi più pericolosi in quella parte della costa, metà dell'equipaggio dichiarò apertamente la propria riluttanza ad andare oltre. Holm fu così costretto a rimandarli indietro con uno degli umiak. Le barche rimaste si misero nuovamente in viaggio e dopo essersi divise, poiché parte della spedizione aveva il compito di indagare i fiordi meridionali, arrivarono sull'isola di Dannebrog raggiungendo, l'ultimo giorno di agosto, il tanto atteso obiettivo: Angmagssalik, a circa 800 chilometri da Cape Farewell.

Holm da eccellente osservatore, scrisse un brillante resoconto della vita indigena prima di tornare indietro e ricongiungersi con Garde sulla costa occidentale. 
I risultati della spedizione furono numerosi sia dal punto di vista geografico che etnologico: l’opera di Holm è uno dei primi primi resoconti moderni e scientifici sugli eschimesi, un testo fondamentale per la ricerca etnologica.



La spedizione ad Angmagssalik fu l'ultimo viaggio scientifico di Holm verso la Groenlandia, la terra verde, tuttavia quando il governo danese decise di istituire una missione e una stazione commerciale proprio ad Angmagssalik, il compito fu affidato a Holm che così nel 1894 visitò il luogo per la seconda volta. Nel periodo tra il 1884 e il 1894, infatti, la popolazione della Groenlandia orientale era drasticamente diminuita da 413 a 243 unità: per impedirne il totale spopolamento e per mantenere la sovranità danese in quel territorio lo stabilimento era di vitale importanza.
Nel 1896 Holm fu nominato membro della Commissione per la direzione delle inchieste geologiche e geografiche in Groenlandia e negli anni successivi si occupò anche di studi di storia geografica, in particolare di argomenti riguardanti l’esatta ubicazione del territorio del Vinland, scoperto da Leif Eriksson.

Gustav Frederik Holm fu un personaggio molto umile, schivo, che evitò con ostinazione di recitare un ruolo nella vita pubblica. Tuttavia, i suoi contributi alla scienza geografica ed etnologica non furono dimenticati. Nel 1890 ricevette la medaglia della Roquette della Geographical Society di Parigi e nel 1895 gli fu conferita la medaglia d'oro della Royal Danish Geographical Society. Nel 1923 fu nominato membro onorario della Greenland Society di Copenaghen e quando l'università di Copenaghen celebrò il suo 450esimo anniversario nel 1929, fu proclamato Dottore in Filosofia honoris causa.

Morì a Copenhagen il 13 marzo del 1940.

domenica 26 luglio 2020

La saga di Guðríðr

Che cosa hanno in comune il piccolo villaggio di Laugarbrekka nella contea di Breidavik, il vicino abitato di Glaumbær in Islanda e la capitale federale del Canada, Ottawa?
Una statua
Laugarbrekka infatti, piccolo villaggio nella penisola di Snæfellsnes, accoglie una delle tre piccole copie dell'opera d'arte realizzata in occasione della Fiera mondiale di New York nel 1938 da uno dei più noti scultori islandesi, Ásmundur Sveinsson.
Una statua intitolata "Fyrsta hvíta móðirin í Ameríku", La prima madre europea in America, che raffigura una donna in piedi al centro di un'imbarcazione vichinga, con la mano sinistra stretta al sommo della prua e la destra attorno a quella del bimbo assiso sulla sua spalla. Nel 2000 il presidente islandese Ólafur Ragnar Grímsson la inaugurò per celebrare la vita e le imprese di due tra i più grandi esploratori della cultura islandese: Guðríðr Þorbjarnardóttir e suo figlio Snorri Þorfinnsson.

La statua di Guðríðr Þorbjarnardóttir e Snorri Þorfinnsson a Laugarbrekka, in Islanda

Guðríðr Þorbjarnardóttir (Gudrid Thorbjarnardóttir) nacque nella fattoria di Laugarbrekka in Islanda nel 980 d. C.. Le saghe narrano che, giovanissima, si innamorò del figlio di uno schiavo, e che il padre, un proprietario terriero di nome Thorbjörn Vifilsson, non volle saperne di concederla in sposa a un individuo di ceto inferiore. Le fonti letterarie ci dicono che andò in sposa a un certo Thorir e che si mise in viaggio con tutta la famiglia verso la Groenlandia, per raggiungere la colonia fondata dal famoso esploratore norreno Erik il Rosso.
E’ vero, può sembrare strano che si vada a cercare miglior fortuna in una terra che ai nostri occhi appare come un’enorme e inospitale distesa di ghiaccio, ma dobbiamo considerare che intorno all'anno 1000 la Groenlandia era una grande isola verde e rigogliosa, a tal punto che i danesi l’avevano battezzata Grønland, che significa proprio “Terra verde".
I norreni, cioè i popoli originari della Scandinavia, della Danimarca e della Germania settentrionale, erano formidabili navigatori, ma le loro “navi lunghe” i drekar (o secondo una forma più comune drakkar) non erano adeguate ad affrontare le tempeste oceaniche; fu così che durante il viaggio l'imbarcazione del marito di Gudrid affondò e lei rimase vedova.
Si dice che fosse di modi gentili e di bell’aspetto e che Thorsteinn, figlio dello stesso Erik il Rosso, la chiese subito in moglie. 
La colonia groenlandese ebbe appena il tempo di stabilizzarsi, quando Leif l’altro figlio di Erik che si era spinto ancora più a Occidente sbarcando nell'attuale Canada, chiamò la famiglia e venne raggiunto, insieme agli altri, da Gudrid e Thorsteinn. Leif aveva scoperto una terra dal clima così mite e favorevole in cui cresceva la vite selvatica: questa nuova terra venne immediatamente ribattezzata Vinland, ossia terra del vino.

La saga nordica islandese conosciuta come la Saga dei Groenlandesi, una delle due principali fonti letterarie che narrano la colonizzazione vichinga dell'America insieme alla Eiríks saga rauða o Saga di Erik il Rosso, racconta che la colonia di Gudrid venne sopraffatta da gruppi di nativi americani, i quali distrussero l’insediamento e fecero strage degli abitanti.
Non restava altro da fare che tornare sui propri passi, ma il viaggio di ritorno fu terribile: in molti morirono in mare e Gudrid rimase vedova per la seconda volta.

Tornata in Groenlandia si stabilì a Brattahlid, dove venne notata da un ricco mercante, Thorfinn Karlsefni, che la chiese in sposa e con cui, dopo qualche tempo, organizzò una nuova spedizione verso il Vinland.
Tre navi vennero armate e imbarcarono decine di persone con cui ridare vita al vecchio insediamento distrutto, che in poco tempo venne rimesso in piedi e in cui verso il 1004 nacque Snorri, figlio di Gudrid e Thorfinn, il primo europeo a nascere nel Nuovo Mondo.
Anche questa volta la tranquillità venne interrotta dagli incidenti coi nativi, che costrinse la colonia di Gudrid ad abbandonare ancora il Vinland; si spinsero quindi più a sud e c’è chi dice che siano giunti fino alla zona dell'attuale Manhattan, finché le ripetute ostilità non li obbligò a riprendere il mare per stabilirsi in Groenlandia, dove Thorfinn mise in piedi una fattoria. 

Dopo la morte di Thorfinn, ucciso dagli skrælingjar (così i norreni chiamavano i gli abitanti delle terre selvagge) Gudrid e il figlio fecero ritorno in Islanda nella città di Glaumbær, a sud dello Skagafjörður, in un momento storico in cui tutto il Paese si stava convertendo al cristianesimo. Lì ricevettero il battesimo, in una casa colonica all'interno della quale oggi è ospitato il Museo di Cultura Popolare dello Skagafjörður.
Gudrid credeva profondamente nei valori della nuova religione e volle intraprendere un lungo pellegrinaggio a piedi verso Roma, per visitare i luoghi che avevano visto nascere il cristianesimo. Si dice che sia stata accolta dal papa e che abbia avuto la possibilità di raccontargli tutto quel che aveva visto nella sua vita avventurosa.
Ritornata in Islanda, andò ad abitare accanto alla chiesa che Snorri aveva fatto edificare a Glaumbær, trascorrendo i suoi ultimi anni nel silenzio e nella preghiera. Morì nel 1009 d. C. e viene venerata ancora oggi come una santa, tanto che a Grafarholt, nuovo quartiere alla periferia nord di Reykjavik, le è stata dedicata l’unica chiesa luterana a prendere il nome da una donna.
E' difficile raccontare in poche parole la vita di una donna tanto straordinaria, che più di mille anni fa con coraggio e determinazione, seppe affrontare le insidie del mare aperto e le incognite di nuove terre da conquistare, scrivendo il proprio nome nella storia della civiltà europea.



martedì 31 marzo 2020

Raymond Maufrais: L'enfant terrible

di Vincent Prou e Axel Graisely

Data di pubblicazione: 21/10/2019 
Editore: prestance 
Pagine: 48
Dimensioni: 22,3 cm × 29,3 cm × 0,8 cm


Care Esploratrici e cari Esploratori, vi ricordate di Raymond Maufrais? Ne abbiamo scritto qui 

e qui

ma ogni occasione ci è gradita per tirare in ballo la vita di questo giovane esploratore francese che voleva scoprire il mondo e che a soli 24 anni intraprese un pericoloso viaggio per collegare la Guyana francese e il Brasile attraverso le montagne Tumuc-Humac.

Grazie alla sceneggiatura di Axel Graisely e ai disegni di Vincent Prou ​​possiamo rivivere le gesta di Raymond e ricordare così una lezione di coraggio, umanità e amore ancora oggi unica e ineguagliata.

martedì 28 gennaio 2020

Jade Hameister: coraggiosa non perfetta


Sorriso limpido, sguardo verde giada, una fitta costellazione di lentiggini su un musetto vispo dall'espressione complice di chi sembra averne combinata una grossa. Jade Hameister non ne ha combinata solo una, ma tre e tre belle grosse.
Questa studentessa australiana di Melbourne, classe 2001, è entrata nella storia dell’esplorazione per aver percorso da sola oltre 1.300 km in quasi quattro mesi tra i ghiacci estremi, realizzando la cosiddetta “polar hat-trick”, la tripletta polare. Per raggiungere questo primato, che le è valso il titolo di “Young Adventurer of the Year” dell'Australian Geographic Society e la medaglia dell'Ordine dell'Australia per il servizio di esplorazione polare, ha sciato al Polo Nord, al Polo Sud e attraversato la seconda calotta polare più grande del pianeta, la Groenlandia.

Tre missioni che hanno dell’incredibile, per le quali Jade si è allenata duramente, fedele al proprio motto "Il coraggio espande le possibilità, la paura le restringe" che in forma di hashtag diventa #expandpossible. Una meravigliosa avventura umana e sportiva nata per caso nel 2013 quando, all'età di dodici anni Jade, raggiunto con il padre Paul il campo base dell'Everest, ha incontrato due alpiniste (una aveva attraversato il Polo Sud da sola sugli sci, l'altra era stata la prima donna a scalare l'Everest senza ossigeno) che l'hanno ispirata a tal punto da cambiarne le priorità e da indurla a realizzare un progetto apparentemente folle da lei stessa battezzato Jade's Polar Quest.

Nell'agosto del 2016 Jade viene invitata a raccontare la sua impresa al TEDx di Melbourne, allo scopo di ispirare le giovani donne a ignorare le pressioni sociali e a pensare in modo avventuroso. "E se le giovani donne di tutto il mondo fossero incoraggiate a essere più, anziché meno?", ha affermato nel discorso "E se l'attenzione si spostasse da come appariamo, a ciò che possiamo fare?". Alcuni uomini, a quel punto, hanno commentato il video con un “make me a sandwich” ovvero “vai a farmi un panino“, un tormentone usato dai troll di internet per deridere e screditare le donne, insinuando che dovrebbero rimanere in cucina, occupando quindi un ruolo subalterno a quello degli uomini.
Stessa sorte toccata a molte altre donne famose, tra cui Hillary Clinton alla quale, durante la corsa alla Casa Bianca del 2008, era stato dedicato un gruppo Facebook intitolato "Hillary Clinton: Stop Running for President e Make Me a Sandwich."
Ciò che questi leoni della tastiera avrebbero dovuto intuire, è che non conviene prendersi gioco una quattordicenne in grado di attraversare il Polo tornando a casa viva, sorridente e pronta a ripartire. Questa giovane donna, quel sandwich, lo ha preparato per davvero e ne ha dato notizia con classe e umorismo proprio attraverso il proprio profilo Facebook:


….Questa notte (non diventa mai buio in questo periodo dell’anno) ho sciato ancora fino al Polo… per scattare questa foto per tutti quegli uomini che hanno commentato con “Fammi un panino” il mio discorso al TEDx. Vi ho fatto un panino (prosciutto & formaggio), ora sciate per 37 giorni e 600km verso il Polo Sud e potrete mangiarlo

Una straordinaria giovane donna che con irresistibile understatement ironizza sui propri meriti e quasi a voler ridimensionare il valore dimostrato nelle sue esplorazioni al limite del possibile, adotta l'hashtag #bravenotperfect: coraggiosa, non perfetta. Un invito per le giovani donne in ogni parte del mondo, ad espandere le loro possibilità, essere attive e credere nei propri sogni.

La tripletta polare di Jade

Tre missioni che hanno dell’incredibile, con cui Jade Hameister è entrata nella storia dell’esplorazione per aver percorso da sola oltre 1.300 km in quasi quattro mesi tra i ghiacci estremi, realizzando la “polar hat-trick”, la tripletta polare.
"Il coraggio espande le possibilità, la paura le restringe", un motto che in forma di hashtag diventa #expandpossible e un progetto apparentemente folle da lei stessa battezzato Jade's Polar Quest.

Il 4 aprile 2016, Jade è diventata la persona più giovane della storia ad aver sciato al Polo Nord, partendo da un qualsiasi punto al di fuori dell’ultimo grado. Ha percorso con gli sci ai piedi ben 150 km ad una temperatura di -30°, trascinando il suo equipaggiamento stipato in una slitta pesante quanto lei: otto/dieci ore di marcia al giorno per 11 giorni, il viaggio più lungo compiuto da una donna al Polo Nord da due anni a quella data. 
Ogni giorno Jade ha dovuto superare creste di pressione, cioè lastre di ghiaccio verticali che si formano in seguito alla frattura del ghiaccio marino, e affrontare le insidie dei leads, i canali di mare che si aprono come crepe lungo la calotta polare. Senza contare che la rotta progettata è stata la più lunga e complicata da portare a termine, ma anche l'unica possibile, poiché la via che partiva dal Canada non era più praticabile.
Il riscaldamento globale ha grandemente influito sulla deriva del ghiaccio marino nell'Oceano Artico, un territorio estremo dove tutto si muove a seconda delle correnti oceaniche e del vento. Per questa ragione ogni mattina al risveglio, la spedizione scopriva di essersi allontanata dalla rotta su una forte corrente dell'oceano orientale, per colpa di quella che viene definita la "deriva negativa".
Un'impresa che comprendeva anche altri rischi come cadere nelle gelide acque artiche per via del ghiaccio sottile e incontrare orsi polari, di cui Jade per fortuna ha trovato solo tracce nel ghiaccio.

Nel maggio 2017, Jade ha portato a termine un’eccezionale avventura, compiuta per la prima volta dal celebre esploratore norvegese Fritjof Nansen, nel 1888.
In soli 27 giorni questa tenace ragazza ha attraversato la calotta glaciale della Groenlandia, percorrendo 550 km su sci e ramponi e trainando una slitta di oltre 80 kg. E' diventata la più giovane donna della storia ad aver realizzato un’impresa simile senza supporti esterni, iniziando il viaggio a Kangerlussuaq, sulla costa occidentale della Groenlandia, per concluderlo sulla costa orientale presso Isortoq Hut il 4 giugno 2017.
Una media di nove ore al giorno di marcia, coprendo quotidianamente circa 25 km a una temperatura di -25 gradi.
Se tutto ciò non bastasse, aggiungiamo che Jade ha affrontato, in questa remota area del pianeta, delle condizioni meteorologiche estreme; ha conosciuto il Piteraq, parola Inuit che significa "agguato", un potente vento catabatico, una massa d’aria glaciale e impetuosa che spira seguendo l’inclinazione orografica delle colline o delle montagne artiche e che può raggiungere una velocità di oltre 200 km/h. Il Piteraq si forma quando l'aria ad alta densità viene trascinata giù da un pendio, o da una quota elevata sotto la spinta della gravità.
Jade ha lamentato un lieve pizzicore sulla guancia sinistra dopo alcuni giorni di gelo e di vento freddo.
Niente più.

Il 2018 è per Jade l’anno dei record: dopo un epico viaggio di 37 giorni attraverso una nuova rotta passante per il Kansas Glacier, dalla Costa di Amundsen in Antartide, a soli 16 anni è diventata la persona più giovane a sciare dalla costa dell'Antartide al Polo Sud senza supporto né assistenza, la prima donna australiana nella storia a sciare dalla costa al Polo senza supporto né assistenza, la prima donna nella storia a stabilire una nuova rotta per il Polo Sud senza supporto né assistenza, la più giovane a sciare su entrambi i Poli e a completare il “Polar Hat Trick”, la tripletta polare.
Un viaggio in cui ha coperto la bellezza di quasi 600 km senza rifornimenti aerei, trainando una slitta del peso di circa 100 kg; prima di Jade solo l’esploratore norvegese Roald Amundsen era riuscito a stabilire una nuova rotta per il Polo Sud nel 1911, seguito dal suo competitore britannico Robert Falcon Scott nel 1912.
Condizioni meteorologiche difficili, venti estremi e temperature brutali non hanno interrotto il percorso con cui Jade è riuscita a tracciare una nuova via attraverso l’inesplorato Kansas Glacier nei monti Transantartici, uno dei ghiacciai più meridionali del mondo. E’ stata a tutti gli effetti un’impresa esplorativa di altissimo livello, che ha permesso a lei e al suo team un’approfondita ricognizione del territorio che la US Geological Society ha poi reso ufficiale.

martedì 3 settembre 2019

Raymond Maufrais: storie e misteri di una vita avventurosa - II° parte


Nel 1947 Raymond Maufrais tornò in Francia, iniziò a riordinare i suoi taccuini di viaggio e a scrivere il libro "Aventures au Mato Grosso". Tenne conferenze a Tolone, in giro per la Francia e all'estero, annunciando il suo nuovo e ambizioso progetto: un viaggio solitario dalla Guyana francese al Brasile passando per i monti Tumuc-Humac fino alla città di Bélem. Una spedizione percorsa interamente a piedi e in canoa nella foresta amazzonica. 
Raymond era un uomo d’azione, sentiva fortemente il richiamo dell’avventura e il 17 giugno 1949, non senza una certa apprensione considerando il rischio dell’impresa, si imbarcò con in tasca un anticipo della rivista “Sciences et Voyages” sui suoi articoli futuri.

Sbarcato a Cayenne, capoluogo della Guyana, continuò a scrivere sul suo taccuino raccontando la vita quotidiana dei lebbrosi di Acarouany, quella dei prigionieri liberati, degli indiani Galibis lungo la costa, dei cercatori d'oro, finché nel settembre del ‘49 ottenne di accompagnare una missione geologica raggiungendo dopo nove giorni in canoa il villaggio di Sophie. 
Rimase tre settimane a Maripasoula in attesa che le piogge si calmassero per poi riprendere il viaggio. Un viaggio che iniziò in modo frugale senza possibilità di fare provviste, non avendo più soldi per comprarne: decise che si sarebbe nutrito unicamente di quel che avrebbe cacciato e pescato.

Iniziò il cammino con lo zaino sulle spalle e il fucile in mano, ma ben presto si rese conto che il peso del suo equipaggiamento era eccessivo e lo divise a metà. Per i primi dieci giorni camminò un chilometro, posando la prima borsa per poi tornare sui propri passi a recuperare la seconda. Aggiornò con costanza il suo diario di viaggio esprimendo i suoi umori, le sue difficoltà, le sue speranze, le sue ansie e il calvario fisico: la caviglia slogata, la difficoltà di reperire cibo, la dissenteria e la dura battaglia contro l'ostilità della foresta. 
Il primo giorno del 1950, in uno stato di completo sfinimento, raggiunse il Dégrad Claude, piccolo molo sul fiume Tamouri. Nel delirio della fame elaborò l’unico piano che gli parve sensato, che prevedeva di nuotare fino al villaggio creolo di Bienvenue, a 70 chilometri di distanza, rifornirsi di viveri e, una volta ristabilito, raggiungere nuovamente il punto in cui si trovava per recuperare le attrezzature e ricominciare il viaggio.
Venerdì 13 gennaio, mise tutto l’essenziale nella borsa impermeabile della sua macchina fotografica, prese con sé il machete, nascose bagaglio e quaderni di viaggio in una piccola capanna trovata sulla via e nonostante la sua estrema debolezza si tuffò nel fiume scomparendo tra i vortici.
Nessuno lo vedrà più.

Circa un mese dopo un indiano Emérillon trovò i quaderni che Raymond aveva abbandonato, ma solo il 6 luglio 1950 l'agenzia di stampa della Guyana olandese (oggi Suriname) lanciò in tutto il mondo la notizia della scomparsa di Maufrais. Il giorno appresso la stampa francese ne parlò e fu l'inizio del "The Maufrais Affair", una colossale serie di articoli, ipotesi più o meno razionali, polemiche infinite con cui i giornalisti francesi portarono alla ribalta la scomparsa del 24enne di Tolone.

C’è però una seconda avventura, ancora più sensazionale di quella di Raymond, che iniziò il 18 luglio 1952. E’ il lungo e toccante viaggio intrapreso da Edgar Maufrais il quale imbarcatosi alla volta del Brasile, viaggiò per tutta l'Amazzonia alla ricerca del figlio, raggiungendo i luoghi in cui era stato informato della presenza di un uomo bianco.


Edgar, convinto che Raymond fosse ancora vivo, organizzò diciotto spedizioni, percorse dodicimila chilometri in dodici anni, mostrando a tutti quelli che incontrava la foto di suo figlio, senza fermarsi di fronte a nulla e senza alcuna preparazione tecnica, né mezzi di sostentamento.
Un viaggio di ricerca che si concluse nel giugno del 1964 con il ritorno a Tolone, dopo aver rischiato di morire per sfinimento nella foresta amazzonica. Edgar Maufrais morì nel 1954 e dopo dieci anni se ne andò anche sua moglie, che aveva gradualmente perso la ragione per aver atteso da sola per quasi dodici anni il ritorno di suo marito e di suo figlio.

La famiglia Maufrais ha dato al mondo una lezione di coraggio, fede e amore, ancora oggi unica e ineguagliata. All’epoca in cui si svolsero i fatti, nel 1951, venne creata a Tolone l'Associazione degli amici dell'esploratore Raymond Maufrais, nata con l’intento di aiutare Edgar nella complessa e pericolosa ricerca del figlio. Nel luglio del 1990 gli ex membri dell'associazione, nonché amici di padre e figlio e numerosi ammiratori, decisero di far rivivere questa organizzazione e nacque così l'Associazione degli amici dell'esploratore Raymond Maufrais, ribattezzata nel 2015 "Associazione degli amici di Edgar e Raymond Maufrais" (AAERM), che da oltre 65 anni tiene viva la memoria di quanto accaduto.
Nel 2014 il regista Jeremy Banster ha portato sullo schermo la storia della spedizione amazzonica di Raymond Maufrais nel film “La vie pure” e l’esploratore parigino Eliott Schonfeld, nell'estate 2019, ha ripercorso in solitaria la rotta della Guyana che Raymond aveva compiuto 70 anni prima.

Per saperne di più potete dare un’occhiata alla sua pagina Facebook :
e al suo sito

lunedì 2 settembre 2019

Raymond Maufrais: storie e misteri di una vita avventurosa - I° parte

Sulla copertina del volume “Aventures en Guyane”, pubblicato nel 1952 da Julliard nella collezione "La Croix du Sud", diretta da Paul-Émile Victor, vediamo un giovane in giacca safari, con la pipa in mano. Il viso è liscio, ben delineato, la fronte alta e larga, il sorriso appena accennato, l'aria determinata: l'immagine perfetta dell'eroe.
E’ la foto di un giovane esploratore francese nativo di Tolone, scomparso nella giungla a 24 anni, di cui non si seppe più nulla e di cui non fu ritrovato neppure il corpo.
Se la foresta pluviale l'ha inghiottita ormai da tempo, la sua memoria è ancora viva tra tutti coloro che lo conoscevano, o che sono stati toccati dalla tenacia con cui suo padre è andato a cercarlo fin nelle più remote regioni amazzoniche.

Si chiamava Raymond Maufrais e questa è la sua storia.

Raymond Maufrais nacque a Tolone, il primo giorno di ottobre del 1926, sotto il segno della Bilancia. Sin dai primi anni di scuola, manifestò un carattere forte e conflittuale, tanto che i genitori si trovarono presto obbligati a mandarlo in collegio fuori città, a nove anni non compiuti.
Con due compagni, ai quali lodò le lontane colonie francesi come un paradiso terrestre, saltò le mura del collegio e scomparve nelle regioni boscose e collinari del Haut-Var. La gendarmeria, dopo aver battuto la regione per quattro giorni, trovò Raymond e i suoi due compagni in una grotta, in buona salute: avevano portato con sé delle provviste. "Pensavo di poter arrivare in una colonia camminando verso la montagna", ammise ai gendarmi.

Nell'ottobre del 1939, entrò nell'École Rouvière a Tolone. Non era quello che si potrebbe definire uno studente brillante, ma aveva ottimi voti in letteratura e amava i classici a tal punto che il suo insegnante di francese, osservando queste sue doti di scrittore, lodò la sua capacità di descrivere luoghi e situazioni. Fu allora che i suoi insegnanti iniziarono a chiamarlo "il futuro giornalista", cosa che lusingò enormemente le ambizioni del piccolo Raymond, ma che gettò nella disperazione sua madre, la quale non aveva mai nascosto il desiderio di saperlo, un giorno, impiegato contabile presso l'Arsenale marittimo di Tolone, così come il padre Edgar.
Raymond, a quel punto, attaccò di fronte al suo banco di scuola, una mappa del Sud America, acquistata all’insaputa dei genitori. All’altezza del Mato Grosso, stato del Brasile centrale il cui nome significa "giungla fitta", disegnò una croce rossa e disse alla madre: "Questo è dove andrò. Diverse spedizioni hanno fallito, ma io ci riuscirò".

Durante la seconda guerra mondiale partecipò, come molti giovani della sua età, a piccole azioni di resistenza, con cui sentì che stava aiutando il proprio Paese nella lotta per liberare la Francia dall'oppressore; suo padre Edgar, al pari suo, si unì segretamente alla resistenza nel giugno del 1942 e divenne leader di gruppo partigiano.
Dopo la liberazione di Tolone, Raymond volle condurre una attiva, una vita da uomo come la definiva e così si arruolò nell'esercito, prima come corrispondente di guerra, poi come paracadutista. Viaggiò in Corsica, in Italia, lungo la Costa Azzurra e nel luglio del 1946 si imbarcò per il Brasile, senza un soldo in tasca.


A Rio de Janeiro conobbe una dozzina di giovani, di origini e nazionalità diverse, ma tutti accomunati e guidati dal demone dell'avventura: una sera di inizio settembre, scommise mille cruzeiros con l'editore del Brazilia Herald che sarebbe andato nelle terre inesplorate del Brasile centrale; attraverso una fitta rete di amicizie intessute in poco tempo, riuscì davvero nel suo intento e gli venne data l’opportunità di partecipare a una missione di pace con gli indiani Chavantes, chiamati "gli assassini del Mato Grosso" e considerati molto ostili ai bianchi.
Ingannò l’attesa delle settimane che precedevano questa avventura prendendo appunti per il libro che intendeva scrivere. Incontrò trafficanti di pelle, cercatori d'oro e di diamanti, descrisse le sofferenze, le speranze e le delusioni di queste persone, ossessionate dalla scoperta della grande pepita o del colossale diamante che avrebbe potuto renderli immensamente ricchi.
Alla fine la missione ebbe inizio e dopo 1.800 chilometri di fiumi, 900 di pampas e foreste, giunse in una radura nel cuore del Mato Grosso, in cui scoprì i resti di una spedizione precedente. Lo stupore venne improvvisamente interrotto dall’accoglienza ostile degli indiani, che scagliarono frecce sugli esploratori, disperdendoli in una fuga precipitosa. Il ritorno fu particolarmente doloroso. La truppa, al colmo della delusione, tornò sui propri passi soffrendo la fame e la sete.

martedì 5 marzo 2019

Alexander Selkirk, in arte Robinson Crusoe

Primo febbraio 1709. Un uomo nascosto nel folto del bosco osserva con timore l'arrivo di due navi all'orizzonte. Sulla spiaggia, dalla quale s’è allontanato di corsa, ha lasciato un fuoco acceso che viene notato immediatamente dagli uomini appena sbarcati. Il giorno dopo esce dal suo nascondiglio e dietro alla barba lunga e arruffata lascia intravedere un sorriso e si intuire un curioso senso di sollievo. Il nome di quest’uomo è Alexander Selkirk e da quattro anni e quattro mesi vive come un naufrago nella più terribile solitudine su una delle isole deserte dell’arcipelago Juan Fernández, a 670 chilometri dalla costa del Cile. Il corsaro Woodes Rogers e i marinai delle sue due navi, Duke e Dutchess, rimangono senza parole al cospetto di quest’uomo scalzo, vestito di pelli di capra e con in mano un vecchio moschetto arrugginito. Dopo quattro lunghi anni trascorsi sulla sabbia nel Pacifico, Alexander Selkirk viene finalmente salvato.
Al rientro in Inghilterra Selkirk diviene una celebrità e la storia della sua permanenza solitaria sull'isola ispira lo scrittore britannico Daniel Defoe, che nel 1719 pubblica Robinson Crusoe, uno dei grandi classici dell’avventura.

Dalla storia.. 
Alexander Selkirk nacque nel 1676 a Lower Largo, una cittadina nella contea di Fife a nord di Edimburgo. Fin da bambino manifestò un carattere oscuro e violento, tanto che rifiutato dalla sua comunità, decise di diventare marinaio. Si unì nel 1703 alla spedizione organizzata dal famoso corsaro ed esploratore inglese William Dampier, con un solo obiettivo: guadagnare molti soldi nelle spedizioni verso i Mari del Sud.
A bordo del galeone Cinque Ports guadagnò rapidamente una buona reputazione da marinaio, ma fu da subito in aperto conflitto il comandante Thomas Stradling, mantenendo invece buoni rapporti con Dampier alla guida della seconda nave, il St. George.
La spedizione nei Mari del Sud fu deludente: le navi attraversarono a malapena Cape Horn e, lungo la costa del Pacifico, le catture furono scarse. Nell'ottobre del 1704, dopo accesi conflitti, i due equipaggi si separano e durante una pausa nell'arcipelago Juan-Fernandez a più di 600 km dalla costa cilena, la Cinque Ports ancorò vicino all'isola Más a Tierra. Stradling voleva ripartire immediatamente, ma Selkirk si oppose perché, disse, la nave aveva bisogno di riparazioni prima di riprendere il largo. Chiese quindi di essere sbarcato, dichiarando che avrebbe preferito rimanere sull'isola piuttosto che continuare a navigare su una nave che imbarcava acqua e cercò di convincere alcuni compagni a disertare. Nessuno lo seguì. Felice di sbarazzarsi di quel ribelle, Stradling lo sbarcò su due piedi, non prima di avergli dato un moschetto, dei proiettili, una libbra di polvere da sparo, un coltello, una pentola, dei vestiti e una bibbia. A nulla valse ritrattare le proprie posizioni, la ciurma del Cinque Ports lo abbandonò facendo vela verso l’orizzonte, ignorando che la sua sorte sarebbe stata molto più crudele che quella di Selkirk.

Selkirk legge la sua Bibbia in una delle due capanne costruite su una montagna. Illustrazione tratta da "The Life and adventures of Alexander Selkirk, the real Robinson Crusoe: a narrative founded on facts" (archived by Google Books)

Il primo anno di vita sull'isola fu il più difficile. Lacerato dall'angoscia, Selkirk rimase vicino alla riva, scrutando febbrilmente l'orizzonte e mangiando quel poco riusciva a trovare. Solo in un secondo momento si ritirò sull'isola, scoprendo con meraviglia una quantità di risorse insospettate. Le capre, introdotte durante le incursioni spagnole, gli salvarono la vita diventando materia prima inesauribile sia per mangiare che per vestirsi
A poco a poco, Alexander riacquisì la fiducia in se stesso, creando un mondo tutto suo. Si costruì una capanna a due stanze, una per cucinare, l'altra per riposare. La fede presbiteriana lo aiutò e, stando a quanto riferì, leggendo ad alta voce la Bibbia e i salmi si salvò dalla follia. "Con la forza della ragione e una lettura assidua degli scritti, volgendo i suoi pensieri verso lo studio della navigazione, finisce per riconciliarsi perfettamente con le sue condizioni", avrebbe scritto più avanti nel suo libro "L'inglese" il giornalista Richard Steele, uno dei primi a narrare l'epopea di Selkirk.
Alexander lo ripeté più volte al suo ritorno: i suoi ultimi anni a Más a Tierra furono per lui un periodo felice, di una tranquillità che non trovò mai più dopo la sua partenza, il 2 febbraio 1709, perché il ritorno alla civiltà fu molto difficile. Il suo carattere ombroso e i suoi demoni tornarono a tormentarlo e nel 1713 dovette fuggire da Bristol dove fu accusato di aver aggredito un falegname; si rifugiò nel suo villaggio natale e visse per un po’ in una grotta dietro casa di suo padre. 
Il richiamo del mare però lo spinse dopo qualche tempo a riprendere il largo e ad unirsi alla Royal Navy nel 1720. Morì di febbre gialla un anno dopo, il 13 dicembre 1721, su una nave mercantile vicino alle coste del Ghana, dimenticato da tutti, mentre un certo Robinson Crusoe stava diventando famoso nel mondo.

… alla leggenda
Robinson Crusoe non si limitò a prendere in prestito gli abiti di Selkirk, ma in un certo senso si sovrappose alla sua figura assimilandone la memoria, creando il mito dell'uomo abbandonato da tutti, costretto a lottare per preservare la propria parte di umanità minacciata dal ritorno a una vita selvaggia. 

Robinson Crusoe, in un disegno di N. C. Wyeth, ispirato alla descrizione di Selkirk fatta da Rogers 
Foto: Christie’s Images / Scala, Firenze

Dal 1 gennaio 1966 l’isola, conosciuta come Isla Más a Tierra, l'isola più vicina alla costa continentale del Cile, si chiama ufficialmente Isla Robinson Crusoe (ne abbiamo parlato nel post dal titolo “L'isola di Robinson Crusoe”), mentre l'isola dell'arcipelago detta Isla Más Afuera (l'isola più esterna), è stata ribattezzata isola Alexander Selkirk proprio in omaggio al marinaio scozzese.

Il ricordo di Alexander Selkirk riemerse gradualmente nella memoria collettiva, grazie all'interesse di artisti e storici. Nel 2005 i ricercatori hanno trovato tracce del suo accampamento e tra racconti, fumetti e film ispirati alla sua avventura sembra proprio che sia giunto anche per lui il momento di diventare un eroe; un personaggio dalla vita burrascosa e straordinaria capace, con la sua storia, di far sognare generazioni di lettori di tutto il mondo.

martedì 18 settembre 2018

Tat'jana Fedorovna Prončiščeva, la prima esploratrice polare

Esiste un golfo lungo la costa settentrionale russa nel territorio di Krasnojarsk che fu scoperto dall'esploratore russo Vasilij Vasil'evič Prončiščev nel 1736 e che rimase a lungo senza nome. Fu solo la spedizione di Boris Andreevič Vil'kickij nel 1913 a battezzare "capo Prončiščeva" il piccolo promontorio all'ingresso della baia. Prončiščev e Prončiščeva, due cognomi russi, il secondo di genere femminile e legato al primo da un vincolo familiare.
Chi era dunque questa donna alla quale è stata intitolata una remota insenatura posta nella parte sud-occidentale del mare di Laptev?
Maria Prončiščeva (1710-23 settembre 1736) conosciuta anche come Tat'jana Prončiščeva, è stata la pioniera russa dell'esplorazione polare femminile.
Poco si sa della sua infanzia e della prima età adulta, ma ci è noto che lei e suo marito Vasilij Prončiščev, tenente della Marina russa imperiale, trascorsero la luna di miele a bordo della nave di Vasilij, lo Yakutsk, navigando attraverso l'insidioso ghiaccio marino e le avverse condizioni meteorologiche, sulla costa del Mar Glaciale Artico tra i fiumi Lena ed Enisey. Questo viaggio era parte di una serie esplorazioni che tra il 1733 e il 1743 costituirono la Grande spedizione del Nord, conosciuta anche come Seconda spedizione in Kamčatka, guidata dall'esploratore e cartografo danese, ufficiale della Marina dell'Impero russo, Vitus Jonassen Bering.
Iniziata sotto lo zar Pietro I di Russia e proseguita da sua figlia la zarina Anna, la Grande spedizione del Nord fu progettata per trovare nuove rotte di navigazione, in modo da collegare la Russia artica con il Nord America e l'Asia: una delle più grandi esplorazioni della storia, grazie alla quale la costa artica fu dettagliatamente mappata, permettendo agli europei di conoscere luoghi precedentemente sconosciuti, quali l'Alaska.
Secondo gli storici i Prončiščev, come molti altri esploratori a bordo dello Yakutsk, morirono di scorbuto, malattia comune tra i navigatori causata dalla prolungata carenza di vitamina C e furono sepolti alla foce del fiume Olenek. Prončiščeva aveva solo 26 anni, ma la sua eredità e la sua memoria sopravvivono tutt'oggi.
Abbiamo già descritto Maria Prončiščeva come una pioniera dell'esplorazione polare femminile, ma la storia di questa donna, che per amore del marito e dell'avventura decise di imbarcarsi in un viaggio pericoloso e pieno di incognite, era ignota all'epoca tanto quanto il suo nome. Tra le 50 persone a bordo del doppio sloop Yakutsk il 29 giugno 1735, infatti c'era anche lei la giovane moglie del capitano, ma il suo nome non compariva nell'elenco dei partecipanti ufficiali alla spedizione, motivo per cui gli storici non sono stati in grado di scoprire nulla su di lei per molto tempo.
Nei documenti della spedizione, infatti, il suo nome è menzionato solo una volta, in una frase scritta sul diario di bordo dall'esploratore russo S.I. Chelyuskin il 12 settembre 1736: 
"Alle quattro dopo mezzanotte la moglie dell'ex comandante della barca Yakutsk, Pronchishcheva, per volontà di Dio morì...".

Busti di Vasilij e Tat'jana, presso il Museo Navale di San Pietroburgo.

Un piccolo mistero però possiamo svelarlo e riguarda il vero nome di Prončiščeva.
Quando nel 1913 la spedizione di Boris Andreevič Vil'kickij chiamò "capo Prončiščeva" il promontorio all'ingresso della baia, in russo mys Prončiščevoj, il dato venne registrato sulle carte con l'abbreviazione "M. Prončiščevoj". Qualche tempo dopo negli anni '20 quella "M" venne interpretata da alcuni cartografi come Maria Prončiščeva, in riferimento alla baia, ovvero buchta Marii Prončiščevoj.

La prima esploratrice polare si chiamava quindi Tat'jana Fedorovna Prončiščeva, e al pari di altre grandi viaggiatrici la sua memoria è viva ora e lo rimarrà in futuro come un riferimento geografico e umano verso cui fare vela.
Mappa russa rilevata nel 1981 e pubblicata nel 1987, raffigurante la Baia di Maria Prončiščeva