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martedì 29 giugno 2021

L'Armenia, il corridoio del Caucaso

Davanti alla sagoma bassa del Selim Caravanserai, fatto costruire nel 1332 dal principe Chesar Orbelian per accogliere i viaggiatori stanchi e i loro animali mentre attraversavano la regione montuosa del Vayots Dzor, il vento spazza il parcheggio solitario. Polvere gialla e cielo terso ci accolgono al Selim Pass, a oltre 2.300 metri di altitudine dopo una lunga serie di tornanti asfaltati che si snodano come un lungo serpente sui fianchi delle montagne. In lontananza la valle e le verdi isole dei paesi.
Cosa sognavano qui i carovanieri dell'alto medioevo, che riparavano cavalli e asini nel rifugio di questo valico isolato?

Siamo quasi nel cuore geografico di un ramo dimenticato delle Vie della Seta: il Corridoio del Caucaso, la porta nord-ovest dell'immensa rete che collega il vasto Oriente con l’Europa dell’Est e del Nord. Una zona in cui per millenni popoli differenti sono entrati in contatto, influenzandosi, ma anche invadendosi l’un l’altro.
Nel puzzle degli imperi che hanno disegnato nel corso dei secoli le Vie della Seta, l'Armenia era e resta un'eccezione: qui, tra il Caspio e il Mar Nero, nonostante i monasteri della prima cristianità abbiano favorito frequenti scambi tra Asia ed Europa, l’Armenia è rimasta ancorata alla propria lingua e alla propria fede.

Nei suoi confini attuali, nati dallo smembramento dell'URSS, la continuità di questa identità culturale e religiosa ha del sorprendente: trentamila chilometri quadrati (un’area equivalente alla Bretagna) racchiudono oggi quasi quattromila chiese e monasteri, costruiti principalmente tra il XI e il XII secolo. Dall'indipendenza e dall'esilio degli azeri l'unica moschea di Yerevan, trasformata in planetario in epoca sovietica, è oggi frequentata dai musulmani iraniani.
La storia della Chiesa d'Armenia è un miracolo? In realtà, l'Armenia è semplicemente il primo stato cristiano della storia.

Khor Virap, uno dei più importanti monasteri armeni, nei pressi del confine con la Turchia.


giovedì 1 aprile 2021

Lalibela, città della fede

Dalle viscere della terra sale una melodia ovattata, che sembra un antico coro, lento e ripetitivo, sospinto da decine di voci all'unisono. Dalla sommità del basamento rossastro in tufo vulcanico su cui otto secoli prima fu scolpito questo complesso monumentale che sfida l'immaginazione, si vedono un intrico di gallerie che scivolano in tutte le direzioni. 
Il giorno sorge appena sull'antica città monastica etiope di Lalibela, stendendo filamenti rosa oltre le montagne che, da tutte le parti, orlano l'orizzonte. Scolpita ad un'altitudine di 2.630 metri sul fianco della montagna, nel cuore dell'antica provincia di Lasta, l'attuale regione dell'Amhara, Lalibela rimane con Aksum la più santa delle città cristiane dell'Etiopia, un luogo che conserva sin dal Medioevo un incredibile insieme di chiese monolitiche.


Pochi gradini consumati dal tempo e da milioni di passi scendono in un primo recinto, poi in un portico scavato nella roccia e in un secondo recinto: in questa cornice le tuniche di lino bianco dei fedeli si sfiorano, mentre un'assemblea di sacerdoti cantori forma un cerchio per poi avanzare in una danza trattenuta, cadenzata al ritmo dei tamburi, dei bastoni da preghiera e dei sistra (sonagli). Una scena che ricorda quelle descritte nell'Antico Testamento, ma permette di comprenderne la vitalità e l'unicità del cristianesimo etiope.

Le undici chiese monolitiche, cioè scavate dall'interno, sono gemme sradicate dalla loro matrice rocciosa e formano rozze strutture dal fascino irresistibile. Sui frontoni immagini pie, colonnati o muri massicci trafitti da finestre a forma di croce o altri simboli religiosi. All'interno, soffitti a cupola, soffitti a cassettoni, affreschi colorati, santi in rilievo o scritture, scolpiti con uno scalpello. I fedeli, accovacciati o appoggiati ai muri, pregano, meditano o leggono, assorti in se stessi.

Classificato nel 1978 dall'Unesco per il suo "eccezionale valore universale", il sito soffre tuttavia di erosione naturale e le chiese spesso protette da coperture metalliche dall'estetica discutibile: solo Bet Giorgis (la Chiesa di San Giorgio) non ne ha e la si può quindi ammirare nella sua eccezionale silhouette a forma di croce greca, che la rende la chiesa più popolare di Lalibela.

La chiesa monolitica ipogea di Bet Giorgis



giovedì 23 luglio 2020

Il rituale del raccolto nella valle dei nomadi

In una remota valle dell'Himalaya indiano, una volta ogni tre anni, la fine del raccolto porta con sé insolite processioni e canti notturni: è il Bono Na, un rituale che si tiene alternativamente nel villaggi di Garkon e Dha, per suggellare l'unione tra gli spiriti della montagna e i Brokpà, una piccola comunità di Dardi che vive nel Ladakh dai tempi delle grandi migrazioni indoeuropee, nell'età del bronzo. I Dardi sono un'etnia appartenente a un gruppo linguistico di ceppo indo-europeo, o per meglio dire indo-ariano, che prima di conquistare l'India settentrionale viveva in Asia centrale; naturalmente il termine ariano non va confuso con nulla che riguardi la teoria nazista sulla superiorità della razza ai fini della propaganda razzista!
Sembra sia stato lo storico greco Erodoto dare a questo gruppo sociale il nome di Dardi, localizzandone il territorio in un’area corrispondente all'odierno Afghanistan nord-orientale.
Nella valle di Dah-hanu, a circa 24 chilometri a nord di Kargil presso la strada militare indiana, esiste l'unica colonia di Dardi autentici, costituita da una popolazione di circa settecento individui. I Brokpà, termine tibetano che significa nomadi, vivono una vita autonoma ed indipendente, un’autarchia basata sui frutti offerti dalla terra di queste valli relativamente basse di quota e dal clima favorevole.

Il Bono Na è quindi un piccolo evento per quanto riguarda il Ladakh, l'Himalaya o l'India intera, ma unico e antico, ereditato dall'alba dei tempi.


Inerpicandosi su uno stretto e ripido sentiero, zigzagando tra alberi di albicocche e grotte rupestri, si arriva a una serie di case allineate sotto una scarpata rocciosa. Ai piedi di questo insediamento si stendono degli appezzamenti coltivati, dove orti, frutteti, colture di cereali e fiori formano un’unica gamma di colori e profumi, tra la geometria variabile dei muri a secco e la sinfonia pastorale di rivoli abilmente canalizzati.

Nel pomeriggio, gli anziani si radunano attorno a un fuoco di ginepro e chiamano con il loro canto "lha", il misterioso intermediario tra gli Dei e gli uomini scelti a turno dagli abitanti del villaggio. Chissà se gli Dei i accetteranno l'invito? Le donne guardano lontano, dalle terrazze sui tetti; c’è chi porta porta pezzi di una capra sacrificati il ​​giorno prima, che gli uomini riuniti condividono ritualmente, compresi i musicisti che si sistemano e iniziano a suonare le melodie tradizionali. Quando scende la notte il grande fuoco getta ombre danzanti tutt'intorno e a turno donne e uomini intonano antichi canti. Gli uomini recitano l’epopea epica della loro gente, le donne eseguono canzoni audaci e a poco a poco i danzatori si avvicinano, sfiorandosi l'un l'altra, quasi incontrandosi all'unisono nello stesso lamento. In passato ogni ballerina poteva abbracciare, baciare, sedurre liberamente il suo partner o persino scivolare via discretamente nel buio, per la notte o per la vita. Un atteggiamento impensabile oggi, ritenuto un parossismo pagano oggi, in un momento in cui questa antica civiltà è minacciata da tutti i versanti.

Sebbene ufficialmente buddisti, i Dardi della valle dell'Indo, seguono un loro sistema di credenze ancestrali, un mix di costumi animistici e riti sciamanici, che ruotano attorno al culto degli antenati e all'adorazione della natura. Rispettosi verso gli animali domestici a tal punto da non bere latte vaccino e non usare lo sterco di mucca come combustibile, cercano di evitare ogni contatto stretto con questi animali. Per contro riveriscono la capra come simbolo di fertilità e prosperità, ritenendola un'eccellente offerta da sacrificare sugli altari delle loro divinità.
Protetti dall'inaccessibilità della loro valle, essi hanno conservato la propria identità culturale: un microcosmo di umanità e tradizioni rimasto intatto dai tempi del loro arrivo.

mercoledì 22 luglio 2020

Il comunismo religioso del villaggio di Soatanana

Come un esercito di angeli delle campagne, tutti senza eccezione, scendono in processione lungo la strada principale del villaggio di Soatanana. In ordine e in silenzio. Uomini, donne e bambini mescolati insieme vestiti con una lunga toga bianca, camminano svelti come se li pungolasse il diavolo stesso. Come ogni domenica, non un devoto perde la chiamata: guidati dall'eco della campana della domenica, questa schiera di vesti bianche arriva, a un certo punto, a una vasta piazza di terra battuta, dominata da un enorme tempio in cui tutti ordinatamente entrano. Ritto sulla porta, un pastore guarda il proprio gregge, incoraggia i bambini, scherza con un gruppo di donne, rimprovera un ritardatario.


A quaranta chilometri a ovest della città di Fianarantsoa, ​​nel cuore delle Alte Terre del Madagascar, il villaggio di Soatanana costituisce il centro storico dei "Discepoli del Signore", in malgascio Mpianatry ny Tompo , un movimento protestante fondamentalista i cui praticanti hanno la particolarità di essere invariabilmente vestiti di bianco. Isolato nel cuore dell'isola nel paese di Betsileo, il piccolo villaggio originariamente fu soprannominato dal suo fondatore La nuova Gerusalemme
A prima vista, sembra un paese come tutti gli altri, tuttavia, dietro questa apparente banalità, si nasconde un'organizzazione sociale estremamente singolare che potrebbe essere definita ironicamente come un comunismo religioso. La società Soatanana, spiega la sociologa Lucile Jacquier-Dubourdieu, si basa su un'economia collettiva molto strutturata, in cui tutte le risorse finanziarie sono centralizzate dal consiglio degli anziani, che gestisce i fondi a beneficio di tutti. La comunità ha quindi un proprio taxi-brousse, i "taxi della savana" che fanno la spola tra città limitrofe, una sua scuola superiore privata e un suo dispensario, nonché un sistema di assistenza per malati e anziani.

Considerata da alcuni come una setta a causa della sua organizzazione autarchica e del suo radicalismo, la comunità aspira unicamente a una vita semplice nel rispetto dei grandi precetti biblici: amore per il prossimo, umiltà, accoglienza, carità, pentimento.
Siamo di fronte a una piccola società modello? a una sorta di paradiso terrestre? Non proprio. 
Purtroppo non è una terra di beatitudine e felicità, poiché come ovunque in Madagascar gli abitanti di Soatanana vivono in povertà e miseria. A ciò si aggiunge che la vita del piccolo villaggio è divisa in due: luterani e cattolici si confondono nella parte meridionale del villaggio, mentre i discepoli sono raggruppati a nord.

Tutti i seguaci di Rainisoalambo, primo presidente dei Discepoli e fondatore di Soatanana, devono indossare questo lungo abito, l'akanjo didimananjara, accompagnato da uno scialle d'avorio, il lamba fitafy e un cappello di paglia, il satroka. Indossano la veste del Paradiso in terra, la veste degli angeli, si battono per un ideale che l'umanità forse non potrà mai raggiungere, ma sopportano questo peso in nome della presenza del divino nei loro cuori.
Verso mezzogiorno, alla fine della cerimonia religiosa, gli angeli se ne vanno come sono venuti: in processione, in ordine e in silenzio, come un microcosmo in movimento sospeso tra Cielo e Terra.

mercoledì 8 luglio 2020

Nanortalik: il "luogo degli orsi polari"

Nanortalik è la decima città più grande della Groenlandia e la più meridionale dell'isola,
Questo abitato è circondato da un intricato sistema di fiordi profondi, piccoli boschi, praterie, aspre scogliere di montagna, che suggeriscono una natura molto simile a quella visibile lungo la costa orientale della Groenlandia, e lambito da un'immensa distesa di ghiaccio marino in continuo movimento appena fuori dal porto. Qui vivono circa 2.200 persone (in Groenlandia infatti una città è considerata tale quando conta più di 1000 abitanti) che trovano impiego nelle principali attività locali: la caccia alle foche, la pesca, il servizio turistico e l'amministrazione locale.
Si arriva a Nanortalik prendendo l'elicottero dal vicino villaggio di Narsarsuaq e dopo un lento ed emozionante sorvolo sui fiordi si viene ricevuti da un'atmosfera accogliente e amichevole. Come dicono i groenlandesi "Quando si raggiunge Nanortalik, è come tornare nella casa della propria infanzia" e se si va a Nanortalik per esplorarne le montagne selvagge "si ritroverà la città natale che non si sapeva di avere".
Un posto silenzioso e freddo, ma circondato da una Natura potente che lo sguardo abbraccia da est, dove si ergono numerose catene di picchi talmente aguzzi che sembrano bucare il cielo, a ovest dove galleggiano enormi strati di ghiaccio marino popolati da selvatici artici.
Questo piccolo centro dove le case dai colori vivaci fiancheggiano le strade, immense vette montuose si innalzano in lontananza e iceberg galleggiano nella baia, trae il proprio nome dall'orso bianco. Nanortalik infatti significa "luogo degli orsi polari", a testimonianza di quanto questa remota parte di territorio danese situato tra l’oceano Atlantico del Nord e il Mar Glaciale Artico, sia da sempre frequentata dai grandi plantigradi bianchi, che a buon diritto sono rappresentati sullo stemma cittadino.

Il bianco candido del ghiaccio, però, non è l'unico colore presente in città: tutti i colori dell'arcobaleno sono scesi su Nanortalik, perché i locali nel tempo hanno dipinto le loro case in verde lime, magenta, arancio brillante, azzurro e lavanda. In origine, questo stile vivace aveva un uso pratico e indicava la funzione di un edificio: gli edifici commerciali erano rossi, gli ospedali gialli, le stazioni di polizia nere, la compagnia telefonica verde e le fabbriche di pesce blu.


Nanortalik si trova alla foce del Fiordo Tasermiut lungo circa 75 chilometri, un fiordo la cui naturale bellezza è capace di attirare scalatori, kayakisti ed escursionisti da tutto il mondo, attratti dalle imponenti e spettacolari pareti verticali che formano la cosiddetta “Patagonia Artica” indicata come una delle dieci meraviglie del mondo nelle guide Lonely Planet.
Altra piccola e inaspettata meraviglia è il Museo Nanortalik, esposizione a cielo aperto ospitata nell'area portuale, che rende omaggio all'era delle esplorazioni polari e alla cultura norrena. Antiche case coloniali divengono scrigno di un tesoro composto da copie di abiti vichinghi in stile Herjolfsnæs, da una collezione di kayak e umiak risalenti al 1440 (scoperti nel 1948 dall'esploratore Eigil Knuth e tra i più antichi trovati in Groenlandia) e da riproduzioni di tende e di case della civiltà Inuit.

venerdì 28 giugno 2019

I diecimila Buddha di Po Win Taung

Nella Birmania centrale lungo la riva destra del fiume Chindwin, a duecento chilometri dalla città di Mandalay, sorge il sito sacro di Po Win Taung, la più grande collezione di pitture rupestri nel sud-est asiatico. Un santuario eccezionale e poco conosciuto, che ripercorre in mille grotte molti secoli di arte, storia e cultura buddista.


Queste grotte che da fuori non sembrano essere così degne di nota, al loro interno custodiscono un vero tesoro: tutte le gallerie furono scavate da semplici fedeli o da artisti di talento pagati da ricchi credenti, per lo più tra il XIV e il XVIII secolo. Costituiscono quindi un'antologia unica di sale di preghiera e cappelle che contengono quasi diecimila rappresentazioni del Buddha, tra sculture dipinte e pitture murali.
Ciascuno dei templi sotterranei ha una sua atmosfera speciale, a seconda dello stile artistico proprio del periodo storico in cui è stato costruito. Custodita da quattro leoni a grandezza naturale la grotta di Naraban risalente al 1550, si distingue come una delle più antiche, mentre le grotte dipinte con uno sfondo vermiglio, come quella della Rosetta, sono caratteristiche del XVII secolo e i vasti templi che imitano l'architettura europea risultano scolpiti nel XIX secolo. 
Sebbene la realizzazione delle sculture e delle pitture murali copra un arco temporale molto più ampio, la maggior parte di esse appartiene allo stile Naung Yan: il secondo periodo del cosiddetto stile Inwa o Ava, sviluppatosi tra il 1597 e il 1752. Questo stile delicato presenta personaggi allungati con visi dolci e arrotondati che prendono parte a scene pie o profane. Un magnifico esempio di questo periodo, la cosiddetta "Queen's Cave" stupisce il visitatore con un soffitto riccamente dipinto che illustra, come in un cartone animato, le ultime dieci vite del Buddha sulla via dell'illuminazione.
L'area sacra di Po Win Taung è ancora oggi molto frequentata proprio come luogo di culto. Una continuità storica dimostrata dalle offerte portate in dono dai pellegrini, i quali accendono bastoncini di incenso e depositano doni sugli altari, esattamente come raffigurato nelle pitture murali di trecento anni prima.


Relativamente ben conservati fino ad oggi, questi tesori dimenticati purtroppo stanno gradualmente subendo le devastazioni del tempo: le inondazioni del vicino fiume, la friabilità della roccia vulcanica, la mancanza di regole per gestire il numero crescente dei turisti e persino la presenza di una colonia di macachi piuttosto invadenti stanno creando dei seri problemi alla conservazione di questo patrimonio. 
Senza contare la minaccia rappresentata dai saccheggiatori, che razziano spudoratamente inestimabili gioielli di arte sacra, tagliando le teste di molte statue per rivenderle.
Anche se l'impermanenza del mondo è uno dei concetti chiave del buddismo, il nostro augurio è che i credenti di Po Win Taung troveranno insieme il modo per salvare questi tesori di bellezza strappati all'oscurità.

mercoledì 3 ottobre 2018

Il Påtår

Tår è un modo giocoso che gli svedesi utilizzano per descrivere una piccola quantità di caffè. Suona un po' come tear che in inglese significa "lacrima". 
Il Påtår, sta a indicare la seconda tazza di caffè, il Tretår letteralmente "three tear" la terza tazza, poi c'è il "Fyrtår".. e così via, finché ce la fate!»

da www.aer-translations.ch/tretar/

Nei bar delle terre scandinave spesso è previsto il refill (pagate solo il primo giro e poi bevete quanti caffè volete), il che rende estremamente piacevole rilassarsi per lungo tempo nei cafe davanti a una tazza fumante e a una o più fette di torta.

venerdì 11 maggio 2018

L'isola di Robinson Crusoe

Realtà o finzione? Quest'isola cilena dell'arcipelago Juan Fernandez nell'Oceano Pacifico, situata a circa 670 chilometri dalla costa di Valparaíso, può legittimamente sollevare la questione. Eppure, sebbene il suo nome ricordi un romanzo, esiste ed è un luogo perfetto per gli amanti dell'avventura, un territorio vergine che per la sua straordinaria biodiversità è stato dichiarato Riserva mondiale della biosfera dall'UNESCO.


Dal 1 gennaio 1966 questa isola, conosciuta come Isla Más a Tierra, l'isola più vicina alla costa continentale del Cile, si chiama ufficialmente Isla Robinson Crusoe, in omaggio al marinaio scozzese Alexander Selkirk, che qui visse in solitudine per 52 mesi dopo esservi naufragato nel 1704 e il cui diario ispirò lo scrittore britannico Daniel Defoe per il suo famoso romanzo "Robinson Crusoe".

Un sottile lembo di terra di pochi chilometri quadrati, un luogo ideale per disconnettersi dal mondo e godersi la natura in solitudine. Le acque cristalline della Isla Robinson Crusoe ospitano una biodiversità sottomarina che attira subacquei da tutto il mondo e in uno scenario come questo non è infrequente imbattersi nell'avvistamento dell'otaria orsina sudamericana (Arctophoca australis), endemica dell'arcipelago Juan Fernández.
Gli isolani si dedicano alle attività economiche locali, che ruotano attorno al mare: la maggior parte di essi vivono infatti di pesca all'aragosta e di escursioni che consentono ai visitatori di pescare il proprio cibo per poi prepararlo nelle cucine allestite a bordo delle barche, chiamate chalupas.
Molte le ricette tradizionali, tra cui la media langosta al plato, el perol una deliziosa zuppa a base di aragosta, le empanadas di granchio dorato, il ceviche con la vidriola o il breca, entrambe gustose pietanze a base di pesce tipico dell'arcipelago.

lunedì 18 dicembre 2017

Il grande cuore della Nuova Caledonia

Viaggiare nel terzo arcipelago più grande del Pacifico oggi è, per molti versi, un'esperienza speciale. La meravigliosa bellezza della natura, la notevole salute economica, l'impegno delle comunità locali a inventare un destino comune per la cultura Kanak in piena risurrezione, sono i tratti salienti di questa collettività francese d'oltremare conosciuta con il nome di Nuova Caledonia.

Nell'estate del 2011 a Noumea, dopo un volo di 16.000 chilometri, il presidente in carica della Repubblica francese apparve davanti ai dieci membri del Sénat coutumier. In rappresentanza di tutte le tribù Kanak delle tre province della Nuova Caledonia, Pascal Sihaze disse: "Signor Presidente, non abbiate paura dei Kanak". Nicolas Sarkozy rispose: "Signor Presidente, non abbiate paura della Repubblica francese".
Due mondi che, in due frasi, si rassicurarono reciprocamente sulla complessità del loro passato, ma anche del loro presente e futuro. 
Il "caillou" (il ciottolo), come veniva chiamato questo territorio del Pacifico francese dai primi minatori di nichel, è sull'orlo di un processo referendario che, tra il 2014 e il 2018, stabilirà i quadri istituzionali per un movimento di autonomia e forse di indipendenza, iniziato quasi un quarto di secolo fa.

Scoperta e chiamata così in omaggio alle terre di Scozia dall'esploratore e cartografo britannico James Cook, la Nuova Caledonia fu proclamata colonia francese nel 1853 dall'ammiraglio Febvrier-Despointes e per più di un secolo una delle principali. Gli abitanti della Grande Terrei Kanak (canachi, in italiano) furono immediatamente confinati ai margini sociali, economici e geografici del proprio Paese, in un sistema di riserve autonome: vennero espropriati delle terre, limitati negli spostamenti in un confinamento forzato, obbligati all'osservanza del Code de Indigénat un insieme di norme istituito nel 1887, con cui il governo francese imponeva alle proprie colonie una serie di misure degradanti.
Solo nel 1946 queste leggi vennero cancellate e la Grande Terre e le sue dipendenze, le Isole della Lealtà, definite un territorio d'oltremare. 
I Kanak oggi stanno gradualmente guadagnando lo status di cittadini francesi, con il ripristino della libertà di residenza e di movimento.
Dal 2010 la Nuova Caledonia è una comunità della Repubblica francese e i suoi cittadini saranno chiamati, entro il 2018, a decidere che strada dovrà prendere questo destino comune canaco, anche raggiungendo l'indipendenza dalla Francia.
Superate le situazioni di estrema tensione politico-sociale degli anni '80, il terzo arcipelago più grande del Pacifico rappresenta un caso tra tutti i territori francesi d'oltremare, per una serie di interessanti fattori culturali, economici e naturali.
La crescita economica, principalmente legata alla creazione di due nuove fabbriche ultramoderne di nichel (Goro nel sud dell'isola e Koniambo, nella provincia settentrionale), garantisce stabilità sociale a uno dei territori dalla variabilità biologica più straordinaria al mondo, in cui la natura si estende sontuosa dalle montagne alle alle isole, passando per una delle lagune più grandi al mondo.
Una cultura originale quella dei canachi, che chiede con orgoglio di poter uscire dall'oscurantismo, raccontando la propria memoria e identità.
Non è così impensabile quindi che tutte le comunità della Grande Terre e delle Isole della Lealtà, indipendentemente dalle loro differenze, non si riconoscano in un futuro comune che renda ancora più grandi le terre di Kanak.