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sabato 8 agosto 2020

La grazia e il coraggio: l'indimenticabile traversata di Florence Chadwick

Quando raggiunse la costa di Dover, in Inghilterra, l'otto agosto 1950, dopo aver nuotato dalla Francia all'Inghilterra, Florence Chadwick disse:

"Mi sento bene. Sono abbastanza preparata per tornare indietro a nuoto".

Dopo due anni di duro allenamento aveva stabilito il nuovo record mondiale di traversata, nuotando da Cape Gris-Nez, in Francia, a Dover in Inghilterra, in 13 ore e 20 minuti, battendo il precedente primato stabilito ventiquattro anni prima dalla connazionale Gertrude Ederle, che traversò in 14 ore, 39 minuti e 24 secondi.


In realtà non tornò subito indietro a nuoto, ma nel 1951 raggiunse nuovamente Dover in cui trascorse undici settimane, aspettando il bel tempo e condizioni favorevoli. L'undici settembre 1951 Chadwick decise finalmente di nuotare, nonostante la fitta nebbia e i forti venti contrari.

A questo punto dobbiamo fare una riflessione, a partire da qualche dato oggettivo. A causa dei forti venti e delle maree, questa rotta che attraversa la Manica da Dover a Sangatte, è sempre stata considerata molto impegnativa, più difficile della rotta Francia-Inghilterra. I nuotatori che l'avevano preceduta infatti avevano evitato questa impresa e nessuna donna l'aveva mai completata; ma Florence, con un tempo record di 16 ore e 22 minuti riuscì a completarla.
Durante il tragitto dovette assumere farmaci contro il mal di mare, sopportare strenuamente il freddo e la fatica, ma riuscì splendidamente a concludere la traversata. Sulla sponda opposta il sindaco della città di Sangatte la accolse sorridente e commosso per congratularsi. 

Nuotare su lunghe distanze, come la maratona e altri sport di resistenza, richiede agli atleti un'ottima forma fisica, una gran tecnica e una gran concentrazione. La maggior parte degli atleti che si cimentano in una traversata, esegue tra le 60 e le 70 bracciate al minuto. Pertanto, una nuotata di 10 ore richiederebbe 42.000 bracciate e una nuotata di 14 ore richiederebbe 58.000 bracciate: un'impresa incredibile. Per non parlare dei pericoli che si possono incontrare in acque libere: occorre coraggio per attraversare la notte oscura, la nebbia, per fronteggiare la presenza di relitti, di macchie di petrolio e di squali e meduse. 
Se ci pensiamo bene malgrado sia una traversata di sole ventitré miglia, un nuotatore potrebbe dover faticare per molte più miglia, assecondando correnti contrarie, maree, vento, onde alte e traffico marittimo.

Ma Florence Chadwick non era sola a nuotare in quel freddo mare di confine. Insieme a lei c'era l'immagine, l'esempio e l'ispirazione datale da Gertrude Ederle, la prima donna ad attraversare a nuoto la Manica. Gertrude compì la traversata nel 1926 e, sebbene la gente pensasse che le donne non fossero in grado di realizzare una tale impresa, non solo la completò, ma batté il record stabilito da un uomo, di quasi due ore. Chadwick, volendo superare Ederle, diventò la prima donna a nuotare nella Manica in entrambe le direzioni, dalla Francia all'Inghilterra e dall'Inghilterra alla Francia.

Al suo rientro negli Stati Uniti venne acclamata come un'eroina nazionale. Radio e televisioni fecero a gara per ospitarla e farle raccontare le emozioni di quell'avventura ai limiti dell'impossibile. Divenne testimonial in molte pubblicità e madrina di manifestazioni sportive.
Viaggiò in tutto il Paese tenendo conferenze sul valore dello sport e dell'attività in acqua, insegnando ai bambini a nuotare e divenendo un esempio per molte donne. Insegnò loro ad affrontare le paure e a superare i limiti imposti da una società che non credeva nelle loro possibilità.
Seguendo l'esempio di una donna, Florence Chadwick ispirò migliaia di persone ad avere fiducia in se stesse e a spingersi al di là dei confini del possibile. 
Con grazia, umiltà e coraggio.

venerdì 7 agosto 2020

Il Kon-Tiki e quel naufragio che diede inizio alla leggenda

Uno smilzo equipaggio su una zattera in legno di balsa, in balia dei flutti su un mare in tempesta, è davanti alla terribile prospettiva di un naufragio.
E' il 7 agosto 1947 e a bordo ci sono sei marinai norvegesi dalle barbe lunghe: Thor Heyerdahl, Knut Haugland, Bengt Danielsson, Erick Hesselberg, Torstein Raaby ed Herman Watzinger. Hanno viaggiato per 101 giorni su una zattera ribattezzata Kon-Tiki che ha percorso circa 3.770 miglia marine (6.890 km), con una velocità media di circa 1,5 nodi, per provare che la colonizzazione della Polinesia poteva essere avvenuta, in epoca precolombiana, da popolazioni del Sud America.
La zattera, costruita con tronchi lunghi 13,7 metri e tenuta insieme da corde in canapa, dopo un lungo viaggio si incaglia sulla barriera corallina nei pressi dell'atollo di Rairoa, nell'arcipelago Tuamotu, situato nella Polinesia francese.

Mappa dell'atollo di Raroia dove il Kon-Tiki concluse il suo viaggio. Disegno di Erik Hesselberg.


Un coraggioso esperimento condotto da sei uomini che, seguendo una insopprimibile sete di conoscenza, sono riusciti a scrivere una delle pagine più straordinarie dell'esplorazione del ventesimo secolo.

giovedì 6 agosto 2020

Gustav Holm e la scoperta della Groenlandia orientale

Il 6 agosto 1849 nacque a Copenhagen l'esploratore danese Gustav Frederik Holm.
Seguendo le orme di suo padre e suo nonno, entrambi ufficiali, entrò nella Marina Reale danese come sottotenente nel 1870, e dopo una brillante carriera fu nominato direttore del Royal Pilotage Service nel 1912, un incarico di responsabilità che ricoprì con grande successo durante la prima guerra mondiale e fino a quando non si ritirò definitivamente dal servizio, nel 1919.

I più grandi successi Holm, tuttavia, li ebbe in qualità di esploratore artico ed è così che comincia la storia che vogliamo raccontarvi.

Nella seconda metà del XIX secolo, nacque l'idea di avviare una sistematica indagine geologica e geografica della Groenlandia: l'autore di questa proposta era Frederik Johnstrup, professore di mineralogia all'Università di Copenaghen, che nel 1875 presentò un piano dettagliato al governo, il quale tre anni dopo nominò una Commissione per la direzione geologica e geografica le investigazioni in Groenlandia.
Nel 1876 Holm prese parte alla prima di una lunga serie di spedizioni nella Groenlandia occidentale come addetto al rilevamento, sotto la guida di Knud J. V. Steenstrup: le ricerche portarono alla mappatura di circa 4.000 chilometri quadrati nel distretto di Julianehåb, in cui vennero raccolte un numero considerevole di antichità e di piante
La sua conoscenza della costa orientale, la sua familiarità con i nativi della Groenlandia e con le loro tecniche di viaggio, spinsero Holm a condurre una spedizione in quelle regioni per rintracciare possibili tracce dell'occupazione norrena sulla costa orientale. 
Nel 1883 partì quindi con l’intento di seguire le acque costiere libere dal ghiaccio per mezzo di umiak, agili imbarcazioni Inuit ricoperte di pelle, ed esplorare la costa orientale, da Cape Farewell verso nord. Il suo secondo in comando era il tenente V. Garde della Royal Danish Navy, e lo staff scientifico era composto dal botanico P. Eberlin, dal mineralogista norvegese Hans Knutsen e da un gruppo di nativi, profondi conoscitori della lingua locale e delle tecniche di navigazione.

I membri danesi della spedizione lasciarono Copenaghen nel maggio 1883 e dopo un lungo viaggio proseguirono verso il piccolo avamposto groenlandese di Nanortalik per svernare, portare avanti osservazioni meteorologiche e prepararsi per il grande viaggio che avrebbe avuto luogo l'estate successiva.
Il 5 maggio tutto era pronto e la spedizione, che consisteva in trentasette persone, a bordo di quattro umiak e alcuni kayak di accompagnamento, si mise in viaggio verso la costa orientale. Di qui in avanti la morsa del pack fermò a più riprese il loro andare, finché nei pressi del ghiacciaio Puissortoq, considerato uno dei luoghi più pericolosi in quella parte della costa, metà dell'equipaggio dichiarò apertamente la propria riluttanza ad andare oltre. Holm fu così costretto a rimandarli indietro con uno degli umiak. Le barche rimaste si misero nuovamente in viaggio e dopo essersi divise, poiché parte della spedizione aveva il compito di indagare i fiordi meridionali, arrivarono sull'isola di Dannebrog raggiungendo, l'ultimo giorno di agosto, il tanto atteso obiettivo: Angmagssalik, a circa 800 chilometri da Cape Farewell.

Holm da eccellente osservatore, scrisse un brillante resoconto della vita indigena prima di tornare indietro e ricongiungersi con Garde sulla costa occidentale. 
I risultati della spedizione furono numerosi sia dal punto di vista geografico che etnologico: l’opera di Holm è uno dei primi primi resoconti moderni e scientifici sugli eschimesi, un testo fondamentale per la ricerca etnologica.



La spedizione ad Angmagssalik fu l'ultimo viaggio scientifico di Holm verso la Groenlandia, la terra verde, tuttavia quando il governo danese decise di istituire una missione e una stazione commerciale proprio ad Angmagssalik, il compito fu affidato a Holm che così nel 1894 visitò il luogo per la seconda volta. Nel periodo tra il 1884 e il 1894, infatti, la popolazione della Groenlandia orientale era drasticamente diminuita da 413 a 243 unità: per impedirne il totale spopolamento e per mantenere la sovranità danese in quel territorio lo stabilimento era di vitale importanza.
Nel 1896 Holm fu nominato membro della Commissione per la direzione delle inchieste geologiche e geografiche in Groenlandia e negli anni successivi si occupò anche di studi di storia geografica, in particolare di argomenti riguardanti l’esatta ubicazione del territorio del Vinland, scoperto da Leif Eriksson.

Gustav Frederik Holm fu un personaggio molto umile, schivo, che evitò con ostinazione di recitare un ruolo nella vita pubblica. Tuttavia, i suoi contributi alla scienza geografica ed etnologica non furono dimenticati. Nel 1890 ricevette la medaglia della Roquette della Geographical Society di Parigi e nel 1895 gli fu conferita la medaglia d'oro della Royal Danish Geographical Society. Nel 1923 fu nominato membro onorario della Greenland Society di Copenaghen e quando l'università di Copenaghen celebrò il suo 450esimo anniversario nel 1929, fu proclamato Dottore in Filosofia honoris causa.

Morì a Copenhagen il 13 marzo del 1940.

martedì 4 agosto 2020

Le Parole dell'Avventura: UMIAK

La storia dell'esplorazione artica non sarebbe stata la stessa, se gli uomini che a più riprese si avventurarono fino ai limiti del mondo conosciuto, non avessero utilizzato le stesse imbarcazioni che i popoli nordici inventarono per vincere la resistenza dei ghiacci. 

L'umiak è una tipologia di barca antichissima, risalente ai tempi dei Thule, i progenitori dei moderni Inuit canadesi (1000-1600 d.C), tipica dell'Artico centrale della Groenlandia, dell'Isola di Baffin, dei territori del Labrador, dell'Alaska e della Siberia orientale.
Fino a tempi recenti, l'umiak, che significa imbarcazione, in pelle, aperta in lingua Inuktitut, è stata il principale mezzo di trasporto estivo per gli Inuit che abitavano sulle coste, utilizzato per lo spostamento delle famiglie nelle zone di caccia stagionali e per le battute di caccia alla balena.
Poteva contenere più di venti persone e trasportare diverse tonnellate di merci; era lunga da sei ai dieci metri e larga, nella parte centrale, più di un metro e mezzo. Il telaio era costruito in legno, o utilizzando ossa di balena, e nascondeva ancoraggi fatti in corno o legno che tenevano insieme la barca. Sul telaio venivano distese pelli di foca barbata (Erignathus barbatus) o di tricheco (Odobenus rosmarus) le quali, cucite insieme e allungate asciugavano attorno al telaio, fasciandolo strettamente.
Il fondo era piatto, senza chiglia, ed entrambe le estremità erano normalmente appuntite. L'umiak era anche usato nell'Artico orientale, ma quasi esclusivamente come mezzo di trasporto. Era infatti la barca di famiglia, la cosiddetta barca delle donne, a bordo di cui venivano affrontati i lunghi viaggi estivi, proprio perché la si riteneva una barca agile, ma in grado di caricare armi e provviste, bambini, cani, tende e vestiti.
Il sistema di navigazione era piuttosto semplice: un anziano seduto a poppa controllava il timone, mentre le donne, imbracciando le pagaie, remavano e scandivano la vogata a suon di canzoni tradizionali. Quando il vento lo permetteva si preferiva navigare a vela, montandone una sull'albero posto a prua. 
Gli uomini seguivano la rotta dell'umiak pagaiando in parallelo sui loro kayak, e all'arrivo si rovesciava l'umiak sulla spiaggia, utilizzandolo come rifugio temporaneo.

Un gruppo di Copper Inuit o Kitlinermiut a bordo di un umiak a Port Epworth

Gli umiak al giorno d'oggi vengono usati raramente, poiché sostituiti da imbarcazioni a motore che ne ricordano la forma e il design tradizionali.