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domenica 2 agosto 2020

Le gelosie della ninfa e le benedizioni di Maria: storia della menta, l'erba santa

In Abruzzo quando due innamorati fanno giuramento d'amore si scambiano mazzolini di menta, recitando queste parole:
"Ecco la menta, se si ama di cuore non rallenta".
E pensare che questa pianta graziosa e profumatissima deve il proprio nome non a una lieta storia di innamorati, ma alla terribile vicenda di gelosia e morte in cui fu coinvolta una ninfa, di cui i nostri antenati greci raccontavano le dolorose gesta secoli e secoli fa.
Si dice che un tempo vi fu una ninfa di nome Mintha, figlia del dio Cocito, creatura di bellezza straordinaria e divinità dei fiumi inferi. Si dice anche che fosse l'amante di Ade, sovrano del regno sotterraneo, e che quando questi rapì Persefone per farne la sposa legittima, Mintha iniziò a fare delle tremende scenate di gelosia, arrivando a minacciare la rivale e a sostenere di esser, tra le due, la più bella. Quando però, al colmo della rabbia, aggiunse che una volta riconquistato l'amante, avrebbe scacciato l'antagonista dal palazzo reale, Persefone e sua madre Demetra decisero di farla tacere. 
Per sempre.
La presero, la smembrarono e la schiacciarono in terra; solo Ade ebbe pietà di lei e la trasformò in una pianta profumata chiamata minthe, resistente ad ogni avversità e quindi capace di crescere rigogliosa persino in inverno e di fiorire anche da recisa.
Alla menta, infatti, fanno riferimento i motti araldici, Recisa floret, tagliata fiorisce, e Hieme floret, fiorisce d'inverno, a simboleggiare la Virtù che, perseguitata, risorge sempre.



La menta è un'erba officinale, usata sin dai tempi più remoti in virtù delle sue proprietà digestive e antisettiche: viene citata nel papiro di Ebers, testo di medicina databile alla XVIII dinastia egizia, che la annotava fra le erbe più preziose, sacra ad Iside e al dio della medicina Thot. Nell'arcipelago toscano il decotto delle foglie è ancora usato come collutorio in caso di infiammazioni della bocca e della gola mentre in Cina, anticamente, era preferita in virtù delle sue proprietà calmanti. 
In cucina le foglie e i fiori ben si prestano a essere impiegati per aromatizzare insalate crude, salse, bevande, una caratteristica che la rendeva cara anche all'imperatore Carlo Magno, il quale emise editti per contenerne lo spreco e tutelarne la specie.

La monaca benedettina e teologa tedesca Santa Ildegarda di Bingen raccomandava la menta acquatica:
"La menta d'acqua è calda ma al contempo leggermente fredda. Se ne può mangiare moderatamente: non apporta all'uomo particolari benefici ma non fa male. Chi dal tanto mangiare e bere ha uno stomaco/intestino appesantito e si sente soffocare, mangi menta d'acqua cruda o cotta con carne, nella minestra oppure nel passato di verdure e la pesantezza cesserà..."
e ancora
“Chi è colpito da un problema polmonare, ha il fiato corto e deve tossire spesso per espettorare al minimo movimento e chi invece mangia e beve troppo al punto da far fatica a respirare e non riuscire ad espellere il flegma, usi la menta d'acqua come sopra descritto.“



Gli antichi Romani usavano grandi quantità di menta per aromatizzare l'acqua del bagno, mentre secondo l'antico testamento quest'erba veniva usata per profumare le mense. Lo stesso poeta romano Ovidio racconta come anche nelle umili case contadine, si strofinasse con foglie di menta il tavolo della cucina prima di servire il pranzo per gli ospiti, un gesto cortese sopravvissuto nelle campagne fino a tempi recenti.

La menta era detta in latino medioevale Herba sanctae Mariae e in francese Menthe de notre Dame. Un legame con la Madonna nato da una leggenda medioevale in cui si raccontava che la Sacra Famiglia in fuga verso l'Egitto incontrò per la via proprio una piantina di menta. La Madonna, annusatone il gradevole profumo, sospirò: "se ci potesse anche dissetare!". In quell'istante dalle piccole foglie della pianta, iniziarono a scendere delle goccioline d'acqua ristoratrice e Maria si rivolse con gratitudine alla menta, dicendo "tu sarai chiamata per sempre l'erba santa". 
Ancora oggi le contadine anziane nelle campagne dell'Abruzzo, memori della sacralità di questa erba, usano sfregare foglioline di mentuccia fra le mani, per richiamare la benevolenza del Signore il giorno della morte, recitando: "Chi scontra la mentuccia e non l'addora, non vede Gesù quando muore".

Profumata e salutare, apprezzata da sempre per le sue mille e mille caratteristiche, la menta merita davvero un posto speciale tra le piantine del nostro balcone, poiché pur apparendo delicata, ha in sé la straordinaria capacità di svilupparsi e fiorire anche in situazioni avverse: Dum cetera languent, si direbbe in latino, per indicare la virtù solitaria che, nonostante tutto intorno si consumi, cresce salda e forte.

domenica 26 luglio 2020

La saga di Guðríðr

Che cosa hanno in comune il piccolo villaggio di Laugarbrekka nella contea di Breidavik, il vicino abitato di Glaumbær in Islanda e la capitale federale del Canada, Ottawa?
Una statua
Laugarbrekka infatti, piccolo villaggio nella penisola di Snæfellsnes, accoglie una delle tre piccole copie dell'opera d'arte realizzata in occasione della Fiera mondiale di New York nel 1938 da uno dei più noti scultori islandesi, Ásmundur Sveinsson.
Una statua intitolata "Fyrsta hvíta móðirin í Ameríku", La prima madre europea in America, che raffigura una donna in piedi al centro di un'imbarcazione vichinga, con la mano sinistra stretta al sommo della prua e la destra attorno a quella del bimbo assiso sulla sua spalla. Nel 2000 il presidente islandese Ólafur Ragnar Grímsson la inaugurò per celebrare la vita e le imprese di due tra i più grandi esploratori della cultura islandese: Guðríðr Þorbjarnardóttir e suo figlio Snorri Þorfinnsson.

La statua di Guðríðr Þorbjarnardóttir e Snorri Þorfinnsson a Laugarbrekka, in Islanda

Guðríðr Þorbjarnardóttir (Gudrid Thorbjarnardóttir) nacque nella fattoria di Laugarbrekka in Islanda nel 980 d. C.. Le saghe narrano che, giovanissima, si innamorò del figlio di uno schiavo, e che il padre, un proprietario terriero di nome Thorbjörn Vifilsson, non volle saperne di concederla in sposa a un individuo di ceto inferiore. Le fonti letterarie ci dicono che andò in sposa a un certo Thorir e che si mise in viaggio con tutta la famiglia verso la Groenlandia, per raggiungere la colonia fondata dal famoso esploratore norreno Erik il Rosso.
E’ vero, può sembrare strano che si vada a cercare miglior fortuna in una terra che ai nostri occhi appare come un’enorme e inospitale distesa di ghiaccio, ma dobbiamo considerare che intorno all'anno 1000 la Groenlandia era una grande isola verde e rigogliosa, a tal punto che i danesi l’avevano battezzata Grønland, che significa proprio “Terra verde".
I norreni, cioè i popoli originari della Scandinavia, della Danimarca e della Germania settentrionale, erano formidabili navigatori, ma le loro “navi lunghe” i drekar (o secondo una forma più comune drakkar) non erano adeguate ad affrontare le tempeste oceaniche; fu così che durante il viaggio l'imbarcazione del marito di Gudrid affondò e lei rimase vedova.
Si dice che fosse di modi gentili e di bell’aspetto e che Thorsteinn, figlio dello stesso Erik il Rosso, la chiese subito in moglie. 
La colonia groenlandese ebbe appena il tempo di stabilizzarsi, quando Leif l’altro figlio di Erik che si era spinto ancora più a Occidente sbarcando nell'attuale Canada, chiamò la famiglia e venne raggiunto, insieme agli altri, da Gudrid e Thorsteinn. Leif aveva scoperto una terra dal clima così mite e favorevole in cui cresceva la vite selvatica: questa nuova terra venne immediatamente ribattezzata Vinland, ossia terra del vino.

La saga nordica islandese conosciuta come la Saga dei Groenlandesi, una delle due principali fonti letterarie che narrano la colonizzazione vichinga dell'America insieme alla Eiríks saga rauða o Saga di Erik il Rosso, racconta che la colonia di Gudrid venne sopraffatta da gruppi di nativi americani, i quali distrussero l’insediamento e fecero strage degli abitanti.
Non restava altro da fare che tornare sui propri passi, ma il viaggio di ritorno fu terribile: in molti morirono in mare e Gudrid rimase vedova per la seconda volta.

Tornata in Groenlandia si stabilì a Brattahlid, dove venne notata da un ricco mercante, Thorfinn Karlsefni, che la chiese in sposa e con cui, dopo qualche tempo, organizzò una nuova spedizione verso il Vinland.
Tre navi vennero armate e imbarcarono decine di persone con cui ridare vita al vecchio insediamento distrutto, che in poco tempo venne rimesso in piedi e in cui verso il 1004 nacque Snorri, figlio di Gudrid e Thorfinn, il primo europeo a nascere nel Nuovo Mondo.
Anche questa volta la tranquillità venne interrotta dagli incidenti coi nativi, che costrinse la colonia di Gudrid ad abbandonare ancora il Vinland; si spinsero quindi più a sud e c’è chi dice che siano giunti fino alla zona dell'attuale Manhattan, finché le ripetute ostilità non li obbligò a riprendere il mare per stabilirsi in Groenlandia, dove Thorfinn mise in piedi una fattoria. 

Dopo la morte di Thorfinn, ucciso dagli skrælingjar (così i norreni chiamavano i gli abitanti delle terre selvagge) Gudrid e il figlio fecero ritorno in Islanda nella città di Glaumbær, a sud dello Skagafjörður, in un momento storico in cui tutto il Paese si stava convertendo al cristianesimo. Lì ricevettero il battesimo, in una casa colonica all'interno della quale oggi è ospitato il Museo di Cultura Popolare dello Skagafjörður.
Gudrid credeva profondamente nei valori della nuova religione e volle intraprendere un lungo pellegrinaggio a piedi verso Roma, per visitare i luoghi che avevano visto nascere il cristianesimo. Si dice che sia stata accolta dal papa e che abbia avuto la possibilità di raccontargli tutto quel che aveva visto nella sua vita avventurosa.
Ritornata in Islanda, andò ad abitare accanto alla chiesa che Snorri aveva fatto edificare a Glaumbær, trascorrendo i suoi ultimi anni nel silenzio e nella preghiera. Morì nel 1009 d. C. e viene venerata ancora oggi come una santa, tanto che a Grafarholt, nuovo quartiere alla periferia nord di Reykjavik, le è stata dedicata l’unica chiesa luterana a prendere il nome da una donna.
E' difficile raccontare in poche parole la vita di una donna tanto straordinaria, che più di mille anni fa con coraggio e determinazione, seppe affrontare le insidie del mare aperto e le incognite di nuove terre da conquistare, scrivendo il proprio nome nella storia della civiltà europea.



sabato 25 luglio 2020

Il Gladiatore, il Medico e l'Erba cipollina

Chi la chiama Aglio ungherese, chi Porro sottile, chi Allium schoenoprasum (odo i botanici sorridere) e chi non la chiama affatto non chiede che erba sia, ma la mangia sempre con gran gusto: stiamo parlando dell'Erba cipollina, una delle piante perenni più usate in cucina e ritenuta un ingrediente indispensabile della nostra gastronomia.

Il nome Allium schoenoprasum deriva dal termine latino “Allium” (aglio) e dal greco "schoenos" (giunco) e "prasos" (porro), perché l'aspetto affusolato delle foglie ricorda quello del giunco, ma il gusto è simile al sapore pungente del porro. 
I fiori sono commestibili e li si può utilizzare per decorare le insalate e donare loro un delicato sentore di cipolla; allo stesso modo le foglie e i bulbi sono perfetti per guarnire e insaporire minestre, per condire formaggi spalmabili e per aromatizzare salse. In effetti sono in tanti a preferire l'Erba cipollina alla cipolla e all'aglio, perché usata fresca ha un aroma lieve che ricorda entrambi, ma che svanisce facilmente.
Il fatto che sia un'erba versatile in cucina, è testimoniato anche dall'uso che si fa delle sue foglie: grazie alla loro elasticità sono spesso impiegate per legare piccole preparazioni a forma di fagotto, o le omelettes, o i mazzetti di verdure lessate.
C'è anche chi la coltiva perché è semplicemente una bella piantina da tenere sul balcone o in giardino e questo per via delle sue infiorescenze, composte da numerosi piccoli fiori rosei, che possono essere addirittura essiccate, mettendole a testa in giù in un luogo fresco, asciutto e ben ventilato, per preparare bouquet di fiori secchi.

Sta di fatto che nel corso del tempo, l'umanità ha usato l'Erba cipollina e le piante del genere Allium perché in qualità di piante officinali, erano ritenute un buon rimedio per la salute; le loro proprietà terapeutiche sono indicate in caso di malattie cardiovascolari, poiché riascono a regolarizzare i valori pressori, a migliorare la circolazione centrale e periferica del sangue e a contrastare l'insorgenza dell'arteriosclerosi.
L'Allium, storicamente, assume un ruolo rilevante verso il 2300 a.C., a seguito della bonifica dei territori occupati dal popolo dei Sumeri nell'attuale Iraq sud-orientale, fino ad allora paludosi e malsani; la birra all'aglio viene in seguito citata nel codice di Hammurabi del XVIII secolo a.C. e anche i Greci e i Romani ne usavano in quantità. Questi ultimi poi consacrarono a Marte, dio della guerra e simbolo di potenza, questa pianta povera eppure ricca di virtù. “Ubi allium, ibi Roma”, recita un antico proverbio contadino del Lazio e non a torto, dato che grandi quantità di aglio venivano masticate tanto dai gladiatori prima di scendere nell'arena, quanto utilizzate dai medici come disinfettante durante gli interventi chirurgici.
Al di là della superstizione che vuole l'aglio il peggior nemico dei vampiri, pare che questa pianta rappresenti un ottimo rimedio per stanare le talpe dal terreno.
C'è però un'antica leggenda musulmana che può celebrare il sapore semplice e complesso dell'Allium schoenoprasum, che racconta di quando Satana, allontanandosi dal Giardino dell'Eden dopo il peccato originale, avrebbe lasciato delle impronte ben visibili sul terreno e di come da quelle impronte sarebbero spuntate a sinistra una pianta di aglio e a destra una di cipolla.

Non vorrei lasciarvi così, senza qualche indicazione per un aperitivo fresco, adatto alla stagione e facilissimo da preparare, per cui care Esploratrici e cari Esploratori, andate in cucina a cercare gli ingredienti necessari a preparare i:

Rotolini di zucchine con ricotta e menta
Ingredienti
200 gr di ricotta 
4 zucchine grandi
alcune foglioline di menta fresca
erba cipollina fresca
olio extravergine d’oliva
sale
pepe

Mondare e tagliare le zucchine in sottili strisce per il lungo, grigliarle in una bistecchiera e disporle su un piatto largo o un vassoio. Spennellatele con un po' d'olio.
Amalgamare in una ciotola la ricotta, due cucchiai d'olio, l’erba cipollina e la menta sminuzzate. Regolare di sale e pepe.
Spalmare una cucchiaiata di ricotta sulle strisce di zucchine grigliate e poi arrotolatele delicatamente, disponendole dal lato piatto su un tagliere: per evitare che il rotolino si apra, potete legarlo con una foglia di erba cipollina. 
Offrire come aperitivo insieme a un calice di Pinot Grigio a temperatura di servizio.

Buon appetito!

giovedì 23 luglio 2020

Il rituale del raccolto nella valle dei nomadi

In una remota valle dell'Himalaya indiano, una volta ogni tre anni, la fine del raccolto porta con sé insolite processioni e canti notturni: è il Bono Na, un rituale che si tiene alternativamente nel villaggi di Garkon e Dha, per suggellare l'unione tra gli spiriti della montagna e i Brokpà, una piccola comunità di Dardi che vive nel Ladakh dai tempi delle grandi migrazioni indoeuropee, nell'età del bronzo. I Dardi sono un'etnia appartenente a un gruppo linguistico di ceppo indo-europeo, o per meglio dire indo-ariano, che prima di conquistare l'India settentrionale viveva in Asia centrale; naturalmente il termine ariano non va confuso con nulla che riguardi la teoria nazista sulla superiorità della razza ai fini della propaganda razzista!
Sembra sia stato lo storico greco Erodoto dare a questo gruppo sociale il nome di Dardi, localizzandone il territorio in un’area corrispondente all'odierno Afghanistan nord-orientale.
Nella valle di Dah-hanu, a circa 24 chilometri a nord di Kargil presso la strada militare indiana, esiste l'unica colonia di Dardi autentici, costituita da una popolazione di circa settecento individui. I Brokpà, termine tibetano che significa nomadi, vivono una vita autonoma ed indipendente, un’autarchia basata sui frutti offerti dalla terra di queste valli relativamente basse di quota e dal clima favorevole.

Il Bono Na è quindi un piccolo evento per quanto riguarda il Ladakh, l'Himalaya o l'India intera, ma unico e antico, ereditato dall'alba dei tempi.


Inerpicandosi su uno stretto e ripido sentiero, zigzagando tra alberi di albicocche e grotte rupestri, si arriva a una serie di case allineate sotto una scarpata rocciosa. Ai piedi di questo insediamento si stendono degli appezzamenti coltivati, dove orti, frutteti, colture di cereali e fiori formano un’unica gamma di colori e profumi, tra la geometria variabile dei muri a secco e la sinfonia pastorale di rivoli abilmente canalizzati.

Nel pomeriggio, gli anziani si radunano attorno a un fuoco di ginepro e chiamano con il loro canto "lha", il misterioso intermediario tra gli Dei e gli uomini scelti a turno dagli abitanti del villaggio. Chissà se gli Dei i accetteranno l'invito? Le donne guardano lontano, dalle terrazze sui tetti; c’è chi porta porta pezzi di una capra sacrificati il ​​giorno prima, che gli uomini riuniti condividono ritualmente, compresi i musicisti che si sistemano e iniziano a suonare le melodie tradizionali. Quando scende la notte il grande fuoco getta ombre danzanti tutt'intorno e a turno donne e uomini intonano antichi canti. Gli uomini recitano l’epopea epica della loro gente, le donne eseguono canzoni audaci e a poco a poco i danzatori si avvicinano, sfiorandosi l'un l'altra, quasi incontrandosi all'unisono nello stesso lamento. In passato ogni ballerina poteva abbracciare, baciare, sedurre liberamente il suo partner o persino scivolare via discretamente nel buio, per la notte o per la vita. Un atteggiamento impensabile oggi, ritenuto un parossismo pagano oggi, in un momento in cui questa antica civiltà è minacciata da tutti i versanti.

Sebbene ufficialmente buddisti, i Dardi della valle dell'Indo, seguono un loro sistema di credenze ancestrali, un mix di costumi animistici e riti sciamanici, che ruotano attorno al culto degli antenati e all'adorazione della natura. Rispettosi verso gli animali domestici a tal punto da non bere latte vaccino e non usare lo sterco di mucca come combustibile, cercano di evitare ogni contatto stretto con questi animali. Per contro riveriscono la capra come simbolo di fertilità e prosperità, ritenendola un'eccellente offerta da sacrificare sugli altari delle loro divinità.
Protetti dall'inaccessibilità della loro valle, essi hanno conservato la propria identità culturale: un microcosmo di umanità e tradizioni rimasto intatto dai tempi del loro arrivo.