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martedì 21 luglio 2020

Il pioppo, l'albero che sussurra al vento

Nella Pianura Padana, un tempo, quando nasceva una bambina si usavano piantare in suo onore mille piccoli alberi di pioppo: al compimento della maggiore età il ricavato del taglio degli alberi avrebbe costituito la dote della ragazza. Una storia che sembra l’inizio di una leggenda, eppure il pioppo, che nei viali delle nostre città viene impiegato come pianta ornamentale, ha avuto da sempre una valenza molto profonda per l’umanità.


Alla minima brezza le chiome di questi alberi stormiscono, levando un brusio che ricorda quello di una folla, per questa ragione i romani chiamarono il pioppo populus, probabilmente da Arbor populi ovvero "albero del popolo", un'ipotesi etimologica tanto affascinante quanto incerta.
I celti lo consideravano un albero oracolare, intermediario sonoro tra il mondo degli uomini e il Sidhe, il popolo fatato dell'oltretomba irlandese; per la tribù di nativi americani Lakota lo stormire delle foglie del pioppo (wa’ga čan) sono le preghiere che l’albero invia alla divinità, e il suo fusto rappresenta l'Albero Sacro (čan wakan), l’elemento più importante della Capanna della Danza del Sole.

A questo punto gli appassionati di fumetti ricorderanno che fu Cavallo Zoppo, sciamano Lakota della tribù di Coda di Toro, a dare inizio alla saga dell'eroe bonelliano Magico Vento. Il pioppo Waga Chun, l'albero sussurrante, lo aveva messo sulle tracce di Ned Ellis, dicendogli:

"cerca colui che è stato dimenticato, il vento ti dirà come raggiungerlo".

Su una tavoletta di pioppo un certo Leonardo da Vinci dipinse uno dei suoi capolavori più conosciuti, la "Gioconda", e prima di lui molti artisti italiani del Medioevo consolidarono un sodalizio artistico con il pioppo, il tiglio e il cipresso dando vita a meravigliose pitture su tavola, pale da altare e polittici che avrebbero ornato chiese e palazzi nobiliari.
A dirla tutta il legno di pioppo, data la sua grande reperibilità e il suo basso costo, viene impiegato oggi per la fabbricazione di pannelli di compensato, cassette da imballaggio, carta, stecchi per gelati e fiammiferi, ma vanta anche altre caratteristiche interessanti come quella di riuscire a prelevare dall'atmosfera 70-140 litri di anidride carbonica all'ora per cederne altrettanti di ossigeno e recenti studi lo indicano anche come una pianta capace di depurare le acque da sostanze inquinanti.
Un albero che è sinonimo di tutela ambientale, di miglioramento della qualità dell’aria e dell’acqua, che incrementa proprio per questo la biodiversità degli habitat naturali e rappresenta una fonte rinnovabile di energia.

mercoledì 8 luglio 2020

Nanortalik: il "luogo degli orsi polari"

Nanortalik è la decima città più grande della Groenlandia e la più meridionale dell'isola,
Questo abitato è circondato da un intricato sistema di fiordi profondi, piccoli boschi, praterie, aspre scogliere di montagna, che suggeriscono una natura molto simile a quella visibile lungo la costa orientale della Groenlandia, e lambito da un'immensa distesa di ghiaccio marino in continuo movimento appena fuori dal porto. Qui vivono circa 2.200 persone (in Groenlandia infatti una città è considerata tale quando conta più di 1000 abitanti) che trovano impiego nelle principali attività locali: la caccia alle foche, la pesca, il servizio turistico e l'amministrazione locale.
Si arriva a Nanortalik prendendo l'elicottero dal vicino villaggio di Narsarsuaq e dopo un lento ed emozionante sorvolo sui fiordi si viene ricevuti da un'atmosfera accogliente e amichevole. Come dicono i groenlandesi "Quando si raggiunge Nanortalik, è come tornare nella casa della propria infanzia" e se si va a Nanortalik per esplorarne le montagne selvagge "si ritroverà la città natale che non si sapeva di avere".
Un posto silenzioso e freddo, ma circondato da una Natura potente che lo sguardo abbraccia da est, dove si ergono numerose catene di picchi talmente aguzzi che sembrano bucare il cielo, a ovest dove galleggiano enormi strati di ghiaccio marino popolati da selvatici artici.
Questo piccolo centro dove le case dai colori vivaci fiancheggiano le strade, immense vette montuose si innalzano in lontananza e iceberg galleggiano nella baia, trae il proprio nome dall'orso bianco. Nanortalik infatti significa "luogo degli orsi polari", a testimonianza di quanto questa remota parte di territorio danese situato tra l’oceano Atlantico del Nord e il Mar Glaciale Artico, sia da sempre frequentata dai grandi plantigradi bianchi, che a buon diritto sono rappresentati sullo stemma cittadino.

Il bianco candido del ghiaccio, però, non è l'unico colore presente in città: tutti i colori dell'arcobaleno sono scesi su Nanortalik, perché i locali nel tempo hanno dipinto le loro case in verde lime, magenta, arancio brillante, azzurro e lavanda. In origine, questo stile vivace aveva un uso pratico e indicava la funzione di un edificio: gli edifici commerciali erano rossi, gli ospedali gialli, le stazioni di polizia nere, la compagnia telefonica verde e le fabbriche di pesce blu.


Nanortalik si trova alla foce del Fiordo Tasermiut lungo circa 75 chilometri, un fiordo la cui naturale bellezza è capace di attirare scalatori, kayakisti ed escursionisti da tutto il mondo, attratti dalle imponenti e spettacolari pareti verticali che formano la cosiddetta “Patagonia Artica” indicata come una delle dieci meraviglie del mondo nelle guide Lonely Planet.
Altra piccola e inaspettata meraviglia è il Museo Nanortalik, esposizione a cielo aperto ospitata nell'area portuale, che rende omaggio all'era delle esplorazioni polari e alla cultura norrena. Antiche case coloniali divengono scrigno di un tesoro composto da copie di abiti vichinghi in stile Herjolfsnæs, da una collezione di kayak e umiak risalenti al 1440 (scoperti nel 1948 dall'esploratore Eigil Knuth e tra i più antichi trovati in Groenlandia) e da riproduzioni di tende e di case della civiltà Inuit.

sabato 27 giugno 2020

I tredici coraggiosi della "2° spedizione tedesca"

Non c'è romanzo, non c'è dramma, che sia commovente come questo volume. Un bastimento naufraga nel mar polare. I tredici passeggeri si trovano alla mercé di un pezzo di ghiaccio. Sopra questo ghiaccio si fabbricano una capanna di carbon fossile. Questo ghiaccio è un masso enorme, ma è semovente, li conduce dove vuole. Esso scricchiola ad ogni tratto; i poveri viaggiatori si sentono mancar la terra, ossia il ghiaccio, sotto i piedi. Il ghiaccio si va sempre più impicciolendo. Sopra il ghiaccio stettero ben sei mesi e venti giorni; il ghiaccio stesso li condusse per più di duecento miglia restando a una distanza di 5 a 10 miglia dalla costa, che di tratto in tratto gl'infelici vedevano da lunge senz'aver mezzo di toccarvi. Spesso ciò che credevano la costa non era che montagne di ghiaccio. La situazione era aggravata da tempeste terribili, da riverberi accecanti, da sgeli lontani e assordanti. Come vivessero fra queste lunghe torture, come s'industriassero a non perire di freddo e di fame, a passare il tempo, a non perdere la ragione (uno sì la perdette!), come riuscissero infine a liberarsi dall'isolotto incantato e toccar terra, ve lo dirà il racconto, che segue giorno per giorno le peripezie della Hansa. La catastrofe della Hansa è uno dei più drammatici episodii della storia dei naufragi. Il fatto avvenne nel 1869-70, e segnalò quella che nella storia eroica delle spedizioni polari si chiama la 2. spedizione tedesca.

Si apre così, con queste frasi vibranti, lo straordinario resoconto dell'esploratore artico Karl Koldewey sul naufragio della goletta Hansa, che il 15 giugno 1869 salpò dal porto di Bremerhaven sulla costa del Mare del Nord, diretta verso la Groenlandia nel Mar Glaciale Artico.
In qualità di comandante della Germania, nave a vapore ad elica a cui la goletta fungeva da supporto, Koldewey riuscì a portare a termine la mappatura della costa tra il 73º ed il 77º parallelo nord e a scoprire e studiare il fiordo di Franz Josef, un fiordo groenlandese lungo 200 km. e al suo ritorno in patria scrisse la storia della Hansa, naufragata il 19 ottobre 1869, il cui equipaggio si salvò su un banco di ghiaccio.

Quella che segue è la descrizione minuziosa dell'equipaggiamento di questi coraggiosi esploratori artici impegnati in una missione al limiti del mondo. 
"Una parte essenziale e difficile dei preparativi era l'approvvigionamento in viveri ed in materiale. Si portò poca carne salata, ma molte conserve di carne in scatole. Si prese altresì una buona provvista di pemmican*, indispensabile per le escursioni in slitta, ed una quantità considerevole di scatole di conserve d'ogni specie. Non era meno indispensabile portare eccellenti liquidi. Oltre i numerosi doni ricevuti in vini e specialmente in vini rossi francesi, si portò una gran quantità di spiritosi e di liquori.
Le provviste di vesti furono parimente oggetto di speciali cure. La Germania conteneva in questo genere un'intera collezione di ciò che esiste di meglio in stoffe d'inverno ed in pelliccie. Nulla era stato negletto nella fattura di queste vesti; così tutte le cuciture erano fatte con lana di pelo di capra d 'Angora, poiché la seta ed il lino, sotto l'influenza della temperatura, perdono alquanto della loro tenacia. Parimente pei bottoni; erano stati fatti di noci d'avorio, i bottoni di seta o di corno essendo stati giudicati troppo poco solidi. Non era entrato un sol filo di cotone negli abiti: tasche, maniche, tutto era foderato di lana. I panciotti erano di tessuto a maglia, interamente foderati di flanella d 'eccellente qualità. Le berrette e i guanti erano di pelle di cane. Le berrette avevano la forma di cappucci per signore; riparavano completamente la testa, il collo e le spalle, ed erano orlati intorno alla faccia con una folta striscia di pelliccia. I guanti erano di quindici a sedici pollici di lunghezza per sette ad otto pollici di larghezza, in maniera da rinchiudere comodamente la mano già rivestita di guanto di lana. Per le pelliccie, si presero buone pelli di pecora gregge o pelli di bufalo. Queste ultime, essendo più leggiere, convenivano meglio per le escursioni. Furono unte, per preservare non solo dal freddo, ma anco dall'umidità. Con queste medesime pelli si erano fabbricati grandi sacchi per dormire negli accampamenti all'aperto."

Letture tratte dal volume "Il naufragio della Hansa spedizione tedesca al Polo Artico (1869-70) dei capitani Koldewey e Hegemann" di Karl Koldewey. Fratelli Treves Editori, Milano 1874.





*Pemmican: cibo altamente nutriente tipico dell’alimentazione dei nativi americani, costituito da una miscela concentrata di grassi e proteine. Viene preparato ancora oggi ed è stato ampiamente adottato dai commercianti di pellicce canadesi e poi europei e dagli esploratori polari.

domenica 21 giugno 2020

Il mondo secondo Sir Burton, collezionista di mondi


Fai quello che la tua natura umana ti ordina di fare,
Non aspettarti applausi se non da te stesso:
Vive e muore nel più nobile dei modi
Chi crea e difende leggi fatte da sé.

Richard Francis Burton, The Kasîdah, VIII: XXXVII


Sir Richard Francis Burton (1821-1890), ufficiale in servizio nelle colonie inglesi, ha dedicato l'intera vita al viaggio e all'avventura. Questo romanzo originale e polifonico restituisce con visionaria nitidezza il fascino della sua figura eccezionale quanto misteriosa!

Burton è una delle figure più romanzesche ed eccentriche del diciannovesimo secolo. Ufficiale in servizio nelle colonie inglesi, attraversa mondi all’epoca sconosciuti e pericolosi. Esplora a fondo le terre musulmane, dall’Egitto all’Arabia, l’Africa orientale, da Zanzibar ai laghi Tanganica e Vittoria alla ricerca delle sorgenti del Nilo, e l’India, da Baroda al deserto del Sindh.

Diplomatico, spia, orientalista, traduttore (sue le versioni inglesi del Kama Sutra e delle Mille e una Notte), Burton sazia la sua brama di sapere studiando a fondo le lingue, gli usi, i costumi e le culture che incontra, tanto da riuscire a confondersi perfettamente con le popolazioni locali. Travestito da pellegrino, sarà tra i primissimi occidentali a compiere l’Hajj, il viaggio sacro alla Mecca. La perdita dei suoi diari, bruciati dalla vedova dopo la sua morte a Trieste, rappresentò dunque un danno irreparabile non solo per i futuri biografi ma anche per la storia e l’antropologia.

Nessuno come lo scrittore bulgaro Ilija Trojanow poteva dedicare una grande narrazione a questo gigante dell’anticonformismo e dell’avventura: come il suo eroe, ha viaggiato e vissuto in tre continenti, ha studiato a fondo le culture, le religioni e le lingue, ha indagato la complessità della natura umana. In un romanzo originale e polifonico, Trojanow restituisce con visionaria nitidezza il fascino di una figura storica tanto eccezionale quanto misteriosa.