Pagine

venerdì 27 dicembre 2019

La vita della Norvegia è tutta sul mare - II° parte

Articolo di Felice Bellotti tratto da La Stampa del 16 febbraio 1940

Una tonnellata e mezza per abitante
Abbiamo raccontata tutta questa storia per dimostrare quale importanza sulla vita nazionale norvegese abbia la marina mercantile che, all'inizio della guerra, occupava il quinto posto fra quelle di tutto il mondo, preceduta da quelle dell’Inghilterra, degli Stati Uniti, del Giappone e della Germania e seguita da quella dell’Italia. La flotta norvegese è infatti composta (1° gennaio 1940) da 4391 navi stazzanti complessivamente 4.845.655 tonnellate. Poiché la popolazione totale della Norvegia è inferiore ai tre milioni di abitanti, si viene ad avere a disposizione per ogni cittadino oltre una tonnellata e mezzo di naviglio. Anche l’Inghilterra è battuta da lontano.
Il livello raggiunto dalla flotta norvegese al 1° gennaio 1940 è il più alto finora registrato. Dalle statistiche risulta che nel 1915 il tonnellaggio complessivo era di 2.594.199 tonn.; nel 1937 supera di poco i 4 milioni; oggi sfiora i 5, il che dimostra che in tre anni la flotta norvegese è aumentata di circa 700mila tonnellate. Cifra ragguardevole sotto tutti i rapporti, che dimostra, inoltre, come una grande percentuale del naviglio che batte bandiera norvegese sia moderno.
Circa 1 milione e duecentomila tonnellate sono rappresentate da navi petroliere, molte delle quali, le più moderne, costruite in Italia.

La flotta norvegese è certamente la più strana del mondo. Esistono centinaia di navi che solcano i mari del Pacifico o dell’Oceano Indiano, le quali non hanno mai visto un porto norvegese. Sono state impostate, varate, allestite, hanno preso il mare battendo la bandiera di Re Haakon e sono invecchiate tanto da finire nei bacini di disarmo senza aver mai avvistati i pittoreschi fiordi della loro Patria. Ma l’equipaggio è sempre formato da norvegesi, gente che se ne va per interi lustri e torna per trovare magari sposata la figlia che «prima» andava a scuola.

«La nostra vita è sul mare!» dicono i norvegesi ed affermano la grande verità della loro esistenza. «Navigare necesse!» ci diceva il signor Bryn, il giorno che ci volle ricevere per raccontarci vita e miracoli della «sua» flotta.

Per questo la vita nazionale della Norvegia attraversa momenti tanto difficili. La minaccia sovietica, la guerra in Europa, il futuro destino del Paese, tutte queste cose sono nelle mani di Dio e nessuno può oggi prevedere ciò che sarà. Ma il mare non è più libero, la flotta trova inciampi per funzionare, le derrate non giungono più, il carbone scarseggia, i prezzi aumentano, la disoccupazione diventa insopportabile per l’erario che è costretto a tassare come non mai i proprii cittadini.
«Noi non abbiamo colonie, non abbiamo mai mirato a prendere territori altrui, ci siamo creati col coraggio dei nostri marinai e col nostro lavoro una «colonia flottante». Perché ce la devono portar via, impedendole di navigare?». Questo ci diceva un signore, di nostra conoscenza. E nelle sue parole compendiava la più grave questione — quelle politiche a parte – che sia sorta in Norvegia dall'inizio della guerra, questione che noi studieremo accuratamente nel corso della nostra inchiesta attraverso la Norvegia.


lunedì 23 dicembre 2019

La vita della Norvegia è tutta sul mare - I° parte

Articolo di Felice Bellotti tratto da La Stampa del 16 febbraio 1940

Oslo, febbraio.
Io credo che non ci sia ragazzo al mondo il quale non abbia avuto per compagno d’avventure, nel mondo senza confini della fantasia, un marinaio norvegese. Norvegia e mare costituiscono, anche per chi non conosca questo stranissimo Paese, quasi un corpo unico, e davvero sarebbe difficile impresa separare quassù la terra dalle acque, perché il mare penetra profondamente nel cuore del Paese coi pittoreschi fiordi, lunghi alle volte centinaia di chilometri, creando una intricatissima rete di canali – che chiamiamo cosi per renderne l’idea anche se non sono affatto canali perché sono bracci di mare.


Alle origini
Questa configurazione geografica della Norvegia ha logicamente portato i primi uomini che giunsero su queste inospitali rocce a cercare nel mare i loro mezzi di sostentamento. Le poche traccie di archeologia esistenti consistono in primitivi disegni scalfiti nella roccia e rappresentanti scene di pesca. Per centinaia di anni, forse per migliaia, i biondi figli del nord che nessuno saprà mai da che parte siano giunti quassù, si sono accontentati della misera vita del pescatore, costruendo le loro capanne con pietre cementate dalle grasse e robuste alghe che rappresentano la sola vegetazione delle zone più settentrionali. Poi gli infiniti orizzonti del mare fascinarono questi uomini che di generazione in generazione avevano finito per prendere confidenza ed amore colle onde. Siamo all'epoca dei leggendari Vichinghi, i formidabili navigatori che si spinsero in tutte le terre conosciute e sconosciute del mondo medioevale, raggiungendo le coste gelide della Groenlandia e il caldo granaio siciliano. 

Audacissimi navigatori, questi antenati dei norvegesi, ricevendo accoglienze piuttosto ostili in tutte le contrade che visitavano, sia per il loro carattere rissoso sia perché, privi di donne nel corso dei loro venturosi viaggi, pretendevano, giunti a terra, di prendersi quelle degli altri, a un certo punto finirono per convincersi che il loro rifugio più sicuro era rappresentato dalle navi. Quel lontanissimo giorno ha inizio la bellissima storia della marina norvegese, arma da preda nei primi tempi e mezzo di commercio poi, quando la pirateria cominciò a diventare troppo pericolosa e poco redditizia per la concorrenza spietata dei Saraceni nel Mediterraneo e dei Britanni e degli Olandesi nei mari settentrionali.

Da allora la marina mercantile è sempre stata alla base di tutta la vita nazionale norvegese. Guerre e prosperità, crisi politiche ed economiche, tutte queste faccende fecero e fanno costantemente capo alla flotta. Fu per spalleggiarsi a vicenda che i norvegesi, nel 872, decisero di formare una unica nazione, in seno alla quale le varie tribù si impegnavano a prestarsi mutuo soccorso contro il nemico. Ma questa è storia vecchia, piena di leggende assai belle, ma che esulano dal nostro compito.


La separazione dalla Svezia
La più importante crisi politica generata dalla flotta in tempi moderni è quella occorsa trentacinque anni or sono, quando la Norvegia decise di separarsi dalla Svezia e di formare un Regno a sé. I due Paesi scandinavi vivevano pacificamente uniti sotto lo stesso simbolo reale, da quando, imperversando in Europa la sanguinosa gloria di Napoleone, un Bernadotte era salito al trono, Re di Svezia e di Norvegia. I due Paesi avevano allora propri Parlamenti, propri Governi, proprie leggi, propria amministrazione, costituivano, insomma, un tipico caso di «unione personale» sotto lo stesso Re, avendo in comune solamente il Ministero degli Affari Esteri, del quale potevano far parte funzionari o diplomatici sia norvegesi che svedesi. Ora avvenne che i funzionari svedesi fossero assai più numerosi di quelli norvegesi e che questi, invece, sentissero la necessità di avere nei ruoli la maggior parta dei consoli per tutelare gli interessi della flotta sparsa in tutti i mari del mondo. Sembra infatti che i consoli svedesi se ne infischiassero tranquillamente degli interessi di questi biondi marinai che partivano dalla Norvegia per farci ritorno dopo due o tre lustri. Vera o non vera questa faccenda, sta di fatto che, nel 1905, regnando Oscar II Bernadotte, la crisi scoppiò. 
Non accadde nulla di straordinario: il governo norvegese presentò le dimissioni a se stesso (questo è il solo particolare curioso) e poiché costituzionalmente il Re non poteva essere Re senza il Governo, Oscar II, automaticamente, cessò di essere Re di Norvegia. I pacifici norvegesi, allora, chiesero a Stoccolma un principe del sangue per farne il loro Sovrano, ma gli svedesi erano furibondi e risposero negativamente, dicendo che di Re ce n’è uno solo e che se volevano Oscar II bene, altrimenti andassero a cercarsene un altro. Dove? La scelta non fu difficile: chi aveva regnato sino al 1814 sulla Norvegia? La Casa di Glücksburg. Dov’era andata a finire questa Reale Famiglia? In Danimarca. Bene, una missione partì per Copenaghen, si presentò a corte e chiese che venisse restituita alla Norvegia la famiglia dei suoi legittimi Sovrani. I Danesi trovarono che la richiesta era davvero eccessiva, ma concessero che un principe partisse e Haakon VII di Glücksburg (che vuol dire «Rocca della Fortuna») divenne Re di Norvegia. 
Così i norvegesi furono in condizione di creare un Ministero degli Affari Esteri e di nominare tutti i consoli che vollero. Questi funzionari naturalmente, uscirono tutti dalle Compagnie di Navigazione e si sparsero per il mondo tutti intenti a difendere gli interessi dei loro padroni effettivi, convintissimi che servivano la Patria perchè la flotta e la Norvegia, per loro, sono esattamente la medesima cosa. Tutta questa faccenda si svolse tra il 29 maggio e il 7 giugno 1905. Se ne parlò moltissimo nel mondo, ma allora la mentalità era diversa e la borghesia frivola di quel felice periodo prebellico volle considerare lo sconquasso come un argomento per pettegolare su una Famiglia Reale piuttosto che la verità, rappresentata da una questione di marinai e di pescatori che poteva sembrare plebea, ma che rappresentava la vera vita del popolo norvegese. Dunque, nel 1905, i norvegesi, per difendere gli interessi della loro flotta, mandarono a spasso un Re e se ne presero un altro, lo stesso che regna ora con grande soddisfazione di tutti, perché Haakon VII è un sovrano amatissimo.


martedì 3 settembre 2019

Raymond Maufrais: storie e misteri di una vita avventurosa - II° parte


Nel 1947 Raymond Maufrais tornò in Francia, iniziò a riordinare i suoi taccuini di viaggio e a scrivere il libro "Aventures au Mato Grosso". Tenne conferenze a Tolone, in giro per la Francia e all'estero, annunciando il suo nuovo e ambizioso progetto: un viaggio solitario dalla Guyana francese al Brasile passando per i monti Tumuc-Humac fino alla città di Bélem. Una spedizione percorsa interamente a piedi e in canoa nella foresta amazzonica. 
Raymond era un uomo d’azione, sentiva fortemente il richiamo dell’avventura e il 17 giugno 1949, non senza una certa apprensione considerando il rischio dell’impresa, si imbarcò con in tasca un anticipo della rivista “Sciences et Voyages” sui suoi articoli futuri.

Sbarcato a Cayenne, capoluogo della Guyana, continuò a scrivere sul suo taccuino raccontando la vita quotidiana dei lebbrosi di Acarouany, quella dei prigionieri liberati, degli indiani Galibis lungo la costa, dei cercatori d'oro, finché nel settembre del ‘49 ottenne di accompagnare una missione geologica raggiungendo dopo nove giorni in canoa il villaggio di Sophie. 
Rimase tre settimane a Maripasoula in attesa che le piogge si calmassero per poi riprendere il viaggio. Un viaggio che iniziò in modo frugale senza possibilità di fare provviste, non avendo più soldi per comprarne: decise che si sarebbe nutrito unicamente di quel che avrebbe cacciato e pescato.

Iniziò il cammino con lo zaino sulle spalle e il fucile in mano, ma ben presto si rese conto che il peso del suo equipaggiamento era eccessivo e lo divise a metà. Per i primi dieci giorni camminò un chilometro, posando la prima borsa per poi tornare sui propri passi a recuperare la seconda. Aggiornò con costanza il suo diario di viaggio esprimendo i suoi umori, le sue difficoltà, le sue speranze, le sue ansie e il calvario fisico: la caviglia slogata, la difficoltà di reperire cibo, la dissenteria e la dura battaglia contro l'ostilità della foresta. 
Il primo giorno del 1950, in uno stato di completo sfinimento, raggiunse il Dégrad Claude, piccolo molo sul fiume Tamouri. Nel delirio della fame elaborò l’unico piano che gli parve sensato, che prevedeva di nuotare fino al villaggio creolo di Bienvenue, a 70 chilometri di distanza, rifornirsi di viveri e, una volta ristabilito, raggiungere nuovamente il punto in cui si trovava per recuperare le attrezzature e ricominciare il viaggio.
Venerdì 13 gennaio, mise tutto l’essenziale nella borsa impermeabile della sua macchina fotografica, prese con sé il machete, nascose bagaglio e quaderni di viaggio in una piccola capanna trovata sulla via e nonostante la sua estrema debolezza si tuffò nel fiume scomparendo tra i vortici.
Nessuno lo vedrà più.

Circa un mese dopo un indiano Emérillon trovò i quaderni che Raymond aveva abbandonato, ma solo il 6 luglio 1950 l'agenzia di stampa della Guyana olandese (oggi Suriname) lanciò in tutto il mondo la notizia della scomparsa di Maufrais. Il giorno appresso la stampa francese ne parlò e fu l'inizio del "The Maufrais Affair", una colossale serie di articoli, ipotesi più o meno razionali, polemiche infinite con cui i giornalisti francesi portarono alla ribalta la scomparsa del 24enne di Tolone.

C’è però una seconda avventura, ancora più sensazionale di quella di Raymond, che iniziò il 18 luglio 1952. E’ il lungo e toccante viaggio intrapreso da Edgar Maufrais il quale imbarcatosi alla volta del Brasile, viaggiò per tutta l'Amazzonia alla ricerca del figlio, raggiungendo i luoghi in cui era stato informato della presenza di un uomo bianco.


Edgar, convinto che Raymond fosse ancora vivo, organizzò diciotto spedizioni, percorse dodicimila chilometri in dodici anni, mostrando a tutti quelli che incontrava la foto di suo figlio, senza fermarsi di fronte a nulla e senza alcuna preparazione tecnica, né mezzi di sostentamento.
Un viaggio di ricerca che si concluse nel giugno del 1964 con il ritorno a Tolone, dopo aver rischiato di morire per sfinimento nella foresta amazzonica. Edgar Maufrais morì nel 1954 e dopo dieci anni se ne andò anche sua moglie, che aveva gradualmente perso la ragione per aver atteso da sola per quasi dodici anni il ritorno di suo marito e di suo figlio.

La famiglia Maufrais ha dato al mondo una lezione di coraggio, fede e amore, ancora oggi unica e ineguagliata. All’epoca in cui si svolsero i fatti, nel 1951, venne creata a Tolone l'Associazione degli amici dell'esploratore Raymond Maufrais, nata con l’intento di aiutare Edgar nella complessa e pericolosa ricerca del figlio. Nel luglio del 1990 gli ex membri dell'associazione, nonché amici di padre e figlio e numerosi ammiratori, decisero di far rivivere questa organizzazione e nacque così l'Associazione degli amici dell'esploratore Raymond Maufrais, ribattezzata nel 2015 "Associazione degli amici di Edgar e Raymond Maufrais" (AAERM), che da oltre 65 anni tiene viva la memoria di quanto accaduto.
Nel 2014 il regista Jeremy Banster ha portato sullo schermo la storia della spedizione amazzonica di Raymond Maufrais nel film “La vie pure” e l’esploratore parigino Eliott Schonfeld, nell'estate 2019, ha ripercorso in solitaria la rotta della Guyana che Raymond aveva compiuto 70 anni prima.

Per saperne di più potete dare un’occhiata alla sua pagina Facebook :
e al suo sito

lunedì 2 settembre 2019

Raymond Maufrais: storie e misteri di una vita avventurosa - I° parte

Sulla copertina del volume “Aventures en Guyane”, pubblicato nel 1952 da Julliard nella collezione "La Croix du Sud", diretta da Paul-Émile Victor, vediamo un giovane in giacca safari, con la pipa in mano. Il viso è liscio, ben delineato, la fronte alta e larga, il sorriso appena accennato, l'aria determinata: l'immagine perfetta dell'eroe.
E’ la foto di un giovane esploratore francese nativo di Tolone, scomparso nella giungla a 24 anni, di cui non si seppe più nulla e di cui non fu ritrovato neppure il corpo.
Se la foresta pluviale l'ha inghiottita ormai da tempo, la sua memoria è ancora viva tra tutti coloro che lo conoscevano, o che sono stati toccati dalla tenacia con cui suo padre è andato a cercarlo fin nelle più remote regioni amazzoniche.

Si chiamava Raymond Maufrais e questa è la sua storia.

Raymond Maufrais nacque a Tolone, il primo giorno di ottobre del 1926, sotto il segno della Bilancia. Sin dai primi anni di scuola, manifestò un carattere forte e conflittuale, tanto che i genitori si trovarono presto obbligati a mandarlo in collegio fuori città, a nove anni non compiuti.
Con due compagni, ai quali lodò le lontane colonie francesi come un paradiso terrestre, saltò le mura del collegio e scomparve nelle regioni boscose e collinari del Haut-Var. La gendarmeria, dopo aver battuto la regione per quattro giorni, trovò Raymond e i suoi due compagni in una grotta, in buona salute: avevano portato con sé delle provviste. "Pensavo di poter arrivare in una colonia camminando verso la montagna", ammise ai gendarmi.

Nell'ottobre del 1939, entrò nell'École Rouvière a Tolone. Non era quello che si potrebbe definire uno studente brillante, ma aveva ottimi voti in letteratura e amava i classici a tal punto che il suo insegnante di francese, osservando queste sue doti di scrittore, lodò la sua capacità di descrivere luoghi e situazioni. Fu allora che i suoi insegnanti iniziarono a chiamarlo "il futuro giornalista", cosa che lusingò enormemente le ambizioni del piccolo Raymond, ma che gettò nella disperazione sua madre, la quale non aveva mai nascosto il desiderio di saperlo, un giorno, impiegato contabile presso l'Arsenale marittimo di Tolone, così come il padre Edgar.
Raymond, a quel punto, attaccò di fronte al suo banco di scuola, una mappa del Sud America, acquistata all’insaputa dei genitori. All’altezza del Mato Grosso, stato del Brasile centrale il cui nome significa "giungla fitta", disegnò una croce rossa e disse alla madre: "Questo è dove andrò. Diverse spedizioni hanno fallito, ma io ci riuscirò".

Durante la seconda guerra mondiale partecipò, come molti giovani della sua età, a piccole azioni di resistenza, con cui sentì che stava aiutando il proprio Paese nella lotta per liberare la Francia dall'oppressore; suo padre Edgar, al pari suo, si unì segretamente alla resistenza nel giugno del 1942 e divenne leader di gruppo partigiano.
Dopo la liberazione di Tolone, Raymond volle condurre una attiva, una vita da uomo come la definiva e così si arruolò nell'esercito, prima come corrispondente di guerra, poi come paracadutista. Viaggiò in Corsica, in Italia, lungo la Costa Azzurra e nel luglio del 1946 si imbarcò per il Brasile, senza un soldo in tasca.


A Rio de Janeiro conobbe una dozzina di giovani, di origini e nazionalità diverse, ma tutti accomunati e guidati dal demone dell'avventura: una sera di inizio settembre, scommise mille cruzeiros con l'editore del Brazilia Herald che sarebbe andato nelle terre inesplorate del Brasile centrale; attraverso una fitta rete di amicizie intessute in poco tempo, riuscì davvero nel suo intento e gli venne data l’opportunità di partecipare a una missione di pace con gli indiani Chavantes, chiamati "gli assassini del Mato Grosso" e considerati molto ostili ai bianchi.
Ingannò l’attesa delle settimane che precedevano questa avventura prendendo appunti per il libro che intendeva scrivere. Incontrò trafficanti di pelle, cercatori d'oro e di diamanti, descrisse le sofferenze, le speranze e le delusioni di queste persone, ossessionate dalla scoperta della grande pepita o del colossale diamante che avrebbe potuto renderli immensamente ricchi.
Alla fine la missione ebbe inizio e dopo 1.800 chilometri di fiumi, 900 di pampas e foreste, giunse in una radura nel cuore del Mato Grosso, in cui scoprì i resti di una spedizione precedente. Lo stupore venne improvvisamente interrotto dall’accoglienza ostile degli indiani, che scagliarono frecce sugli esploratori, disperdendoli in una fuga precipitosa. Il ritorno fu particolarmente doloroso. La truppa, al colmo della delusione, tornò sui propri passi soffrendo la fame e la sete.